Solaris Stanislaw Lem Il pianeta Solaris, ad anni luce dalla Terra, è formato da un unico immenso oceano e sembra possedere strani poteri. E’ capace, infatti, di penetrare nella mente degli astronauti che lo stanno studiando ed evocare immagini del loro passato. Immagini che si trasformano in veri e propri esseri viventi, in grado di ragionare e provare sentimenti. Il pianeta è forse abitato da un’intelligenza superiore? Ed è possibile una comunicazione mentale tra l’uomo e il pianeta senziente? Sono questi i tormentosi interrogativi che si pongono i protagonisti della missione, le cui vite risulteranno sconvolte. Capolavoro di Stanislaw Lem, «Solaris» è un romanzo fondamentale nella fantascienza di tutti i tempi. Ed è soprattutto un’opera che con uno stile magistrale si sofferma non tanto sui misteri dell’universo quanto sui temi dell’identità, sull’ignoto che è in noi, come sfida ai limiti della conoscenza umana. Dopo aver ispirato nel 1972 il regista russo Tarkovskij, «Solaris» è ora un film dell’americano Steven Soderbergh. Nella parte di Kelvin, l’astronauta che indaga su quanto accade nella stazione spaziale, uno degli attori più amati di Hollywood: George Clooney. Stanislaw Lem, polacco di Leopoli, trascorre la sua giovinezza conoscendo la terribile dominazione nazista. I suoi romanzi, tra cui «Pianeta del silenzio», «Eden», Pace al mondo», sono opere originali che affrontano soprattutto il tema etico del progresso tecnologico e la responsabilità delle scelte esistenziali dell’uomo. Lem è probabilmente il più importante scrittore di fantascienza non di lingua inglese. I suoi libri sono stati tradotti in trenta paesi e hanno venduto più di venti milioni di copie. Stanislaw Lem SOLARIS Traduzione di Eva Bolzoni. Stanislaw Lem, 1961. Titolo dell’opera originale: «Solaris». 1. L’ARRIVO Alle diciannove, ora di bordo, passai in mezzo ai meccanici, fermi accanto al pozzo di lancio, e per la scaletta a mano scesi nella capsula. Ci stava giusto un uomo, con lo spazio appena sufficiente per muovere i gomiti. Una volta avvitata sulla paratia la bocchetta del mio sistema pneumatico antiaccelerazione, la tuta si gonfiò e da quell’istante non potei più fare neanche il minimo movimento. In posizione eretta, anzi, direi sospeso in un cuscino d’aria, ero tutt’uno con lo scafo. Alzai gli occhi e vidi, attraverso il vetro dell’oblò, la parete del pozzo e, sopra, la faccia di Moddard. Subito quell’immagine sparì; scese il buio: si era chiuso lo schermo di protezione. Intanto gli inservienti stavano sistemando il cono antitermico. Udii otto volte il fischio degli avvitatori elettrici che stringevano i bulloni. Poi il sibilo dell’aria che sfuggiva dagli ammortizzatori, raggiunta la pressione di esercizio. La mia vista si stava adattando all’oscurità, cominciavo a intravedere il quadrante verdeazzurro dell’unico indicatore presente nell’abitacolo. — Pronto, Kelvin? — risuonò negli auricolari. — Pronto, Moddard — risposi. — Non devi preoccuparti di niente. Della manovra si occuperà la stazione — disse. — Buon viaggio. Prima che potessi replicare, udii uno scricchiolio e la capsula tremò. Tesi i muscoli, istintivamente, ma non accadde nulla. — Quando si parte? — chiesi, mentre udivo un rumore simile a quello dei sassolini che colpiscono un tamburo. — Sei in volo, Kelvin. Buona fortuna! — mi giunse chiara la voce di Moddard. Prima che me ne rendessi conto, si aprì una fessura nello schermo di protezione, all’altezza dei miei occhi, e finalmente scorsi le stelle. Cercai di rintracciare l’Alfa dell’Acquario, verso cui si allontanava il Prometheus, ma non riconobbi alcuna costellazione. In quel settore della Galassia il cielo non mi diceva niente, quello che vedevo al di là del vetro era solo uno sciame di stelle sfavillanti ma anonime. Attesi che ne comparisse una più grande delle altre, ma presto non potei più distinguerle. A una a una tutte impallidivano fino a svanire, si confondevano in un’unica macchia rossiccia e luminosa, la sola indicazione del tratto che avevo già percorso. Rigido, avvolto nel cuscino pneumatico, volavo nello spazio a una velocità vertiginosa, ma mi pareva di essere fermo. La sola sensazione che tradiva il passare del tempo era il calore che aumentava, lento, ma inesorabile. Poi sentii un suono stridente, come di metallo che striscia contro un vetro bagnato. Il mio volo era finito, era iniziata la manovra d’attracco. Non avrei notato il cambiamento di direzione se non avessi visto le cifre che saltellavano sul quadro degli strumenti. Le stelle erano sparite da tempo, dal vetro scorgevo solo un chiarore debole e rossastro che pareva stendersi ininterrotto. Ogni rumore era cessato, sentivo solo il battito accelerato del mio polso. Il soffio fresco del condizionatore mi colpiva la nuca, ma la mia faccia scottava. Rimpiangevo di non avere visto il Prometheus. Doveva essere già fuori campo quando era avvenuta l’apertura automatica dello schermo metallico che riparava l’oblò. La capsula sobbalzò come per un forte urto. Due volte. L’intera struttura vibrò e anche se filtrato dagli strati isolanti esterni e dal cuscino d’aria in cui ero avvolto, il fremito mi penetrò fin dentro il corpo; il contorno verdeazzurro delle cifre, sul quadro degli strumenti, parve tremare e moltiplicarsi, il suo chiarore allargarsi in tutte le direzioni. Ma io lo osservavo senza paura. Dopo un viaggio così lungo non ero certamente disposto a mancare il bersaglio! — Stazione Solaris — chiamai. — Stazione Solaris, stazione Solaris! Mi pare di essere fuori rotta, correggete la direzione della capsula. Stazione Solaris, qui capsula in arrivo da Prometheus. Passo. Mi era sfuggito di nuovo un momento importante, quando si vedono spuntare i pianeti. Solaris era già davanti a me, piatto, immenso. Eppure, dall’aspetto della superficie, stimavo di essere ancora molto lontano. O meglio, molto in alto, poiché avevo oltrepassato quell’inafferrabile linea di demarcazione a partire dalla quale vediamo come un’altezza la distanza che ci separa dalla superficie di un corpo celeste. Cadevo. E adesso ne avevo la sensazione, anche a occhi chiusi. (Li aprii subito, volevo vedere quanto più possibile.) Aspettai in silenzio per qualche secondo, poi ripetei la chiamata. Anche questa volta non ottenni risposta. Negli auricolari si susseguivano i crepitii dell’elettricità statica. In sottofondo c’era un brusio così sordo e basso da parermi la voce stessa del pianeta. Poi il cielo color arancione venne coperto da un velo di nebbia, l’immagine dietro il vetro si oscurò. Istintivamente contrassi i muscoli, per quanto lo consentiva la tuta pneumatica, prima di capire che stavo semplicemente attraversando un banco di nubi; un attimo più tardi, la nebbia si sollevò, come aspirata verso l’alto. Continuai a planare, ora nel sole, ora nell’ombra perché la capsula girava sul proprio asse verticale, e infine, dietro il vetro, comparve l’enorme disco solare, che pareva arrivare da sinistra e allontanarsi a destra. Finalmente mi giunse dagli altoparlanti una voce lontana, disturbata dal brusio e dalle scariche. — Stazione Solaris a volo in arrivo, stazione Solaris a volo in arrivo. Prepararsi per l’atterraggio a tempo zero. Ripeto, prepararsi per l’atterraggio a tempo zero. Attenzione, comincio il conto alla rovescia. Duecentocinquanta, duecentoquarantanove, duecentoquarantotto… Tra una parola e l’altra c’erano scatti e scricchiolii, segno che il messaggio veniva da un sistema automatico. La cosa era piuttosto strana. Di solito, nelle stazioni spaziali, tutti corrono a salutare i nuovi venuti, specialmente se arrivano dalla Terra. Non ebbi il tempo di riflettere, perché il sole, che fino a quel momento si era limitato a girare attorno a me, si spostò all’improvviso e comparve ora a destra ora a sinistra, come se danzasse sull’orizzonte del pianeta. Io dondolavo come un pendolo, mentre la superficie del pianeta, coperta di solchi violacei e neri, si alzava davanti a me come una muraglia. La testa mi girava, ma scorsi ancora un disegno a scacchi verdi e bianchi: il reticolo di avvicinamento alla stazione. All’esterno della capsula si staccò con uno schiocco la lunga collana dei paracadute; si aprì con una serie di strattoni e il rumore che si accompagnò a quelle manovre mi ricordò in modo irresistibile qualcosa di assolutamente terrestre. Dopo tanti mesi udivo di nuovo il fischio del vento. Da quel momento in poi, tutto si svolse molto in fretta. Fino ad allora avevo avuto la sensazione di cadere, ma ora ne ebbi la prova visiva. La scacchiera verde e bianca si ingigantì di colpo; vidi che era dipinta su uno scafo argentato, scintillante, a dorso di balena, con i fianchi irti di sottili antenne radar. La colossale costruzione metallica, forata da varie file di portelli scuri, non posava sulla superficie del pianeta, ma rimaneva sospeso a mezz’aria e proiettava sullo sfondo scuro un’ombra ellittica, di un nero ancora più intenso. Al tempo stesso riuscii a distinguere i solchi marrone dell’oceano, che parevano in lieve movimento; le nubi si alzarono di colpo, contornate di un accecante bordo scarlatto, in un cielo che si mostrava negli interstizi lontano e piatto, grigio e livido; poi tutto sparì; la capsula rotolava su se stessa. Con un ultimo strattone, tutto si raddrizzò. Dalla stretta apertura del mio oblò tornai a vedere l’oceano, e le creste delle onde mi parvero brillare come argento vivo. Con uno schiocco, i cavetti e gli anelli dei paracadute si staccarono e volarono via lontano, sopra le onde, portati dal vento; la capsula dondolò dolcemente, con il movimento al rallentatore che gli imponeva il campo magnetico artificiale attivo, e scivolò verso la stazione. L’ultima cosa che riuscii a vedere furono i ponti di lancio e le antenne paraboliche di due radiotelescopi, solidamente fissate ai tralicci d’acciaio. Con un terrificante clangore metallico che riverberò a lungo attorno a me, la capsula si immobilizzò. Un portello si aprì e con un ultimo suono stridente il mio veicolo terminò il viaggio. Dalla cabina di comando mi giunse la voce meccanica del sistema automatico di guida. — Stazione Solaris. Zero, zero. Atterraggio della capsula compiuto. Fine. A due mani (provavo una vaga oppressione al petto e sentivo gli intestini come un peso spiacevole) afferrai le manopole e staccai il contatto. Si accese in verde la scritta TERRA e il portello della capsula si aprì. Il cuscino pneumatico premette contro la mia schiena e mi spinse fuori, costringendomi a fare un passo in avanti per non cadere. Con un leggero sibilo, simile a un sospiro di rassegnazione, la tuta espulse l’aria dei tubolari. Ero libero. Mi trovavo entro un’enorme volta di metallo argenteo, alta quanto la navata di una cattedrale. Lungo le pareti scendevano fasci di tubazioni colorate, che poi sparivano in bocchettoni circolari. Sopra di me, i canali di ventilazione ruggivano per aspirare i residui velenosi dell’atmosfera del pianeta, filtrati durante l’atterraggio. Mi girai. Come un bozzolo vuoto, la capsula a forma di sigaro posava dritta in una coppa sorretta da un’intelaiatura d’acciaio. Lo scudo di protezione, che si era bruciato durante il volo, era adesso marrone scuro. Scesi lungo una stretta rampa. Il pavimento era coperto di una plastica robusta e spessa, che però lasciava a nudo l’acciaio nei punti di maggiore passaggio dei carrelli che portavano i razzi. Improvvisamente i ventilatori si fermarono e cadde un silenzio totale. Mi guardai in giro, attonito, aspettandomi di veder comparire qualcuno: ma non vidi segno di vita. Solo una freccia fluorescente accesa, che segnalava la corsia mobile. Era già in movimento: vi salii e mi lasciai portare via. La volta della rimessa scendeva con una bella linea parabolica fino a un lungo corridoio. Nelle rientranze di questo erano accatastati mucchi di bombole di gas compresso, manometri, paracadute, casse e altri oggetti, sparsi in disordine, a mucchi. Il nastro trasportatore finiva in una rotonda dove si aprivano numerose porte, in fondo alla galleria. Laggiù c’era un disordine ancora maggiore. Un liquido oleoso formava una pozzanghera sotto una catasta di bidoni. L’aria era impregnata di un odore forte e sgradevole. Le orme oleose di coloro che avevano evidentemente calpestato il liquido si allontanavano in varie direzioni. Fra i bidoni c’erano rulli bianchi di banda perforata, carta straccia e rifiuti di ogni genere. Si accese di nuovo una segnalazione verde, che indicava la porta centrale. Al di là di questa partiva un corridoio stretto, in cui sarebbero passate a stento due persone affiancate. La luce scendeva da oblò circolari che guardavano il cielo. Ancora una porta, a scacchi bianchi e verdi. Era socchiusa. Entrai. La cabina emisferica aveva un’unica grande finestra curva, panoramica, attraverso la quale si vedeva il cielo coperto di nuvole rossastre. In basso, le onde scure s’inseguivano in file silenziose. Alle pareti era fissato un gran numero di scaffalature piene di strumenti, di libri, di bicchieri con il fondo incrostato, di thermos polverosi. Cinque o sei tavolini metallici a rotelle poggiavano sul pavimento macchiato e, fra loro, alcune poltroncine afflosciate. Una sola era debitamente gonfia, con lo schienale inclinato all’indietro. Vi stava seduto un ometto magrissimo, con la faccia bruciata dal sole. La pelle si squamava sul naso e sugli zigomi. Lo riconobbi. Era Snaut, un cibernetico, assistente di Gibarian. A suo tempo aveva pubblicato, sull’ Annuario di Solaristica, alcuni articoli molto originali. Non l’avevo mai incontrato di persona. Indossava una canottiera di rete, dalla quale uscivano i radi peli bianchi del petto piatto, e un paio di calzoni di tela con molte tasche, da meccanico, che un tempo erano bianchi ma adesso erano macchiati e pieni di buchi di acido. Teneva in mano una pera di plastica, di quelle che si usano per bere nei mezzi speciali sprovvisti di gravità artificiale. Mi guardò fisso, come intontito; aprì le dita e la pera cadde, rimbalzando sul pavimento come una palla. Ne schizzò qualche goccia di un liquido incolore. Pian piano tutto il sangue si ritrasse dal suo volto. Ero troppo attonito per dire qualcosa e il suo terrore cominciò a contagiarmi impercettibilmente. Feci un passo in avanti. Lui si raggomitolò nella poltrona. — Snaut… — sussurrai. Sussultò, come se avesse ricevuto una sferzata e mi guardò con un ribrezzo indescrivibile. — Non ti conosco — gracchiò — non ti conosco, che vuoi…? Il liquido versato evaporava rapidamente. Riconobbi l’odore dell’alcol. Beveva? Era ubriaco? Perché si spaventava così? Ero ancora fermo al centro della cabina, ginocchia molli, orecchie che parevano tappate con il cotone, piedi con presa ancora poco salda al suolo. Dietro il vetro convesso della finestra l’oceano si muoveva ritmicamente. Snaut non mi staccava di dosso gli occhi arrossati. Dal suo volto svaniva la paura, ma non la ripugnanza. — Che cos’hai? — chiesi a voce bassa. — Sei malato? — Ti preoccupa…? — disse rauco. — Ma guarda! Di’ un po’, perché ti interessi a me? Non ti conosco. — Dov’è Gibarian? — domandai. Rimase per un attimo senza fiato, i suoi occhi divennero vitrei, qualcosa vi si accese e si spense. — Gi… Giba… — balbettò. — No! No! Fu scosso da un riso ebete, silenzioso, che s’interruppe di colpo. — Sei venuto per Gibarian…? — disse, quasi tranquillo. — Per Gibarian? Povero vecchio. Che cosa vuoi fare di lui? Mi guardava come se di colpo avessi cessato di rappresentare una minaccia; nelle sue parole, e ancora più nel tono, c’era qualcosa di sprezzante e di offensivo. — Che cosa dici…? — balbettai sbigottito. — Lui dov’è? S’irrigidì. — Non sai…? «E’ ubriaco» pensai, «ubriaco fradicio.» Cominciavo a innervosirmi. Avrei dovuto andarmene, in realtà, ma persi la pazienza. — Sveglia! — gridai. — Come posso sapere dov’è se sono appena arrivato in volo! Che cosa ti prende, Snaut! Rimase a bocca aperta, nuovamente senza fiato, e i suoi occhi furono percorsi da un lampo improvviso. Si alzò a fatica, appoggiandosi con mani tremanti ai braccioli della poltrona, facendo scricchiolare le articolazioni. — Come? — disse quasi lucido. — Arrivato in volo? Da dove vieni? — Dalla Terra — risposi con irritazione. — Ne hai mai sentito parlare? Si direbbe di no. — Dalla Te… Santo cielo! Allora tu sei… Kelvin? — Sì. Perché mi guardi così? Che cos’ho di strano? — Niente — disse sbattendo le palpebre. — Niente. Si passò la mano sulla fronte. — Kelvin, scusami… vedi, è stata semplicemente la sorpresa. Non ti aspettavo. — Come sarebbe a dire, non mi aspettavi? Se sono mesi che avete ricevuto la comunicazione, e anche oggi Moddard vi ha avvisato da bordo del Prometheus… — Sì. Sì… Certo. Solo che, vedi, qui regna una specie di… disordine. — Già — risposi seccamente. — E’ difficile non accorgersene. Snaut mi girava attorno, come se volesse esaminare la mia tuta, una delle più semplici del mondo, con gli attacchi delle condutture pneumatiche e dei cavi elettrici sul petto. Tossì un po’. Si toccò il naso ossuto. — Vuoi andare in bagno…? Ne avrai bisogno: la porta azzurra, qui di fronte. — Ti ringrazio. Conosco la pianta della stazione. — Avrai fame… — No. Dov’è Gibarian? Andò verso la finestra come se non avesse udito la domanda. Di schiena sembrava più vecchio: i capelli, molto corti, erano bianchi, e la nuca abbronzata era segnata da rughe profonde come tagli. Oltre il vetro della finestra brillavano di tanto in tanto le immense creste delle onde, che si alzavano e ricadevano lentamente come se l’oceano fosse rappreso. Guardando fuori si aveva l’impressione che la stazione si spostasse leggermente di lato, slittando su un basamento invisibile. Poi riprendeva la sua posizione e si inclinava dall’altra parte. Però credo fosse solo un’illusione ottica. Brandelli di densa schiuma color sangue si raccoglievano negli avvallamenti fra le onde. Per un istante la nausea mi strinse la gola. L’ordine rigoroso che regnava a bordo del Prometheus mi parve un bene prezioso perduto per sempre. — Senti… — disse improvvisamente Snaut — per il momento ci sono solo io… — si girò. Si fregò nervosamente le mani. — Dovrai accontentarti della mia compagnia. Per ora. Chiamami Topo. Mi hai conosciuto solo in fotografia, ma non fa niente, tutti mi chiamano così. Credo che non ci sia rimedio. Quando si è stati allevati, come me, da genitori con ambizioni cosmiche… Topo è giusto… — Dov’è Gibarian? — insistetti ancora una volta. Socchiuse gli occhi. — Scusami per l’accoglienza, non… non è solo colpa mia. Mi ero completamente dimenticato. Sai, qui sono successe molte cose… — Va bene — dissi esasperato — lascia perdere. Allora, che cos’è successo con Gibarian? Non è alla stazione? E’ in missione da qualche parte? — No — rispose. Fissava un angolo ingombro di rotoli di cavi elettrici. — Da nessuna parte. E non andrà da nessuna parte, mai più. Perciò… tra l’altro… — Come dici? — risposi. Avevo come un ronzio alle orecchie e pensai di avere udito male. — Che significa? Dov’è? — Lo sai già — disse con un altro tono. Mi guardò negli occhi freddamente, e provai un brivido. Forse era ubriaco, ma sapeva quel che diceva. — E’… — Un incidente? Annuì con il capo. Oltre a confermare con vigore, spiava la mia reazione. — Quando? — Oggi, all’alba. Strano, ma non provai alcun turbamento. In un certo modo, con la sua concretezza, quello scambio di domande e risposte a monosillabi mi aveva rassicurato. Mi illusi che potesse spiegare l’atteggiamento incomprensibile di prima. — Come è successo? — Va’ a cambiarti e a mettere in ordine la tua roba — disse lui, senza rispondere. — Torna qui… tra… diciamo, un’ora. Esitai un momento. Poi lasciai perdere. — Bene. — Aspetta — soggiunse, mentre mi giravo verso la porta. Mi guardava in modo strano; evidentemente le parole che intendeva dirmi non volevano uscirgli dalla bocca. — Eravamo in tre e adesso, con te, siamo di nuovo in tre. Conosci Sartorius? — Come conoscevo te, dalle fotografie. — E’ sopra, nel laboratorio, e non credo che ne uscirà prima di sera, però lo riconoscerai. Ma se tu dovessi vedere qualcuno… voglio dire, non me e non Sartorius, capisci, allora… — Allora che cosa? — chiesi. Credevo di sognare. Sullo sfondo delle onde rilucenti sotto i raggi del sole al tramonto, Snaut si sedette nella poltrona, con la testa abbassata, fissando l’angolo dove c’erano le bobine dei cavi elettrici. — Allora… non fare niente — concluse. — E chi dovrei vedere? Un fantasma? — esplosi. — Capisco. Tu credi che io sia impazzito. No, non sono impazzito. Non riuscirei a spiegartelo in un altro modo… per ora. Del resto, forse… non accadrà niente. Comunque, ricorda, io ti ho messo in guardia. — Da chi? — Dòminati — disse cocciutamente. — Comportati come se… fossi preparato al peggio. E’ impossibile, lo so, però prova a farlo. E’ l’unico rimedio. Non ne conosco altri. — Ma «che cosa» dovrei vedere? — quasi urlai. A stento mi trattenni dall’agguantare per le spalle e scuotere quell’uomo dalla faccia stanca e bruciata, che, immobile, fissava un angolo e si lasciava sfuggire con visibile sforzo frasi inarticolate. — Non so. In un certo qual modo dipende da te. — Allucinazioni? — No. E’ realtà. Non… aggredire. Ricordatelo. — Che cosa dici? — risposi con una voce che quasi non riconoscevo. — Non siamo sulla Terra. — Un aspetto che riguarda il pianeta? Ma è qualcosa di completamente diverso da noi! — gridai. Non sapevo come distoglierlo da quella fissità incantata, che pareva dipendere da qualche sua agghiacciante assurdità. — Perciò è ancor più terribile — confermò a bassa voce. — Ricorda: sta’ attento. — Che cosa è successo a Gibarian? Anche ora non rispose. — Che cosa fa Sartorius? — insistetti. — Tu torna tra un’ora. Mi voltai e uscii. Aprendo la porta, lo guardai ancora una volta. Sedeva raggomitolato, col viso tra le mani, con i pantaloni macchiati, immobile. Soltanto allora mi accorsi che sulle nocche delle mani aveva del sangue raggrumato. 2. I SOLARISTI Il corridoio tubolare era vuoto. Sostai davanti alla porta chiusa e ascoltai. Le pareti dovevano essere molto sottili, poiché dall’esterno giungeva il fischio del vento. Sulla porta di fronte era appiccicato di sghembo un pezzo rettangolare di nastro adesivo bisunto, con su scritto a matita: UOMINI. Guardai la parola scarabocchiata e per un attimo ebbi voglia di tornare da Snaut, ma capii che era inutile. I suoi avvertimenti mi echeggiavano ancora nelle orecchie. Mi mossi, curvo sotto il peso esasperante della tuta. Silenziosamente, come nascondendomi a un osservatore invisibile, tornai nella rotonda per provare le altre porte. Sulla targhetta della prima si leggeva: DOTT. GIBARIAN; sulla seconda: DOTT. SNAUT; sulla terza: DOTT. SARTORIUS. Sulla quarta, niente. Esitai, poi premetti piano la maniglia e aprii lentamente. Mentre spingevo provai il presentimento, quasi la certezza, che ci fosse qualcuno nella cabina. Entrai. Non c’era nessuno. Attraverso una piccola finestra convessa si vedeva l’oceano, che da quella parte, sotto il sole, era tutto lustro come se dalle onde colasse un olio rossastro. Il riflesso scarlatto riempiva la cabina, che era simile a quella di una nave. Su un lato c’erano alcuni scaffali di libri, e tra di essi era appoggiato un letto, in verticale, contro la paratia; dall’altro lato, tra vari stipetti con maniglie metalliche (uno era aperto e si vedevano becchi a gas e provette tappate col cotone), erano appese vedute aeree in cornici di nichel; su due file, sotto la finestra, erano sistemati contenitori bianchi, smaltati, che ingombravano il passaggio. Alcuni erano aperti e all’interno si potevano vedere utensili e cannucce di plastica in gran numero. Agli angoli della stanza c’erano alcuni rubinetti, un aspiratore dei fumi, un frigorifero. Il microscopio, per il quale non c’era più posto sul grande tavolo vicino alla finestra, era posato sul pavimento. Girandomi, vidi accanto alla porta d’entrata un armadio socchiuso, alto fino al soffitto, pieno di tute, di camici, di grembiuli isolanti e, sui ripiani, biancheria, scarponi antiradiazione e le bombole d’alluminio degli autorespiratori. Due di questi apparecchi, completi di maschere, erano appesi alle maniglie del letto rialzato. Lo stesso caos regnava dappertutto, l’ordine era solo apparente. Fiutai l’aria; sentii un lieve effluvio di reagenti chimici e la traccia di un odore più aspro, forse cloro. Automaticamente alzai lo sguardo alle grate del condizionatore sul soffitto. Alcune striscioline di carta attaccate agli orli svolazzavano, indicando che i compressori erano in funzione per mantenere il normale ricircolo d’aria. Tolsi da due sedie i libri, gli apparecchi, gli utensili e li ammucchiai alla meglio in un angolo, in modo da creare un po’ di spazio vuoto fra il letto e l’armadio. Tirai fuori un attaccapanni, per appendervi la mia roba, e presi tra le dita la linguetta della chiusura lampo; ma la mollai subito. Non mi risolvevo a togliermi la tuta, quasi che, senza di essa, sarei rimasto indifeso. Ancora una volta passai in rassegna la camera; controllai che la porta fosse ben chiusa, ma non aveva chiavistello e, dopo un attimo di riflessione, spinsi contro di essa due contenitori, dei più grossi. Dopo essermi sommariamente barricato in quel modo, in tre mosse mi liberai del mio involucro pesante e scricchiolante. Sull’anta dell’armadio, all’esterno, uno specchio stretto rifletteva una parte della camera. Sussultai perché, con la coda dell’occhio, avevo colto un movimento; ma era il mio riflesso. La maglia, sotto la tuta, era inzuppata di sudore. La tolsi e chiusi l’anta; dietro c’era una porta che dava su uno stanzino da bagno. In basso, sotto la doccia, c’era una cassetta piatta, piuttosto grande. La sollevai e, con un certo sforzo, la trasportai in camera. Quando la posai al suolo, il coperchio si aprì di scatto, spinto da una molla. Gli scomparti erano pieni di oggetti strani, abbozzi di metallo cupo, quasi goffe imitazioni degli strumenti che si trovavano negli stipetti. Erano rovinati, deformati, smussati, parzialmente fusi, come se fossero passati nel fuoco. La cosa più inusuale erano le tracce di alterazione nelle maniglie di ceramica, che erano pressoché indistruttibili. In nessun forno di laboratorio si sarebbe potuta raggiungere la necessaria temperatura di fusione: forse in una pila atomica. Per rilevare le radiazioni, presi un contatore dalla tasca della tuta spaziale, ma il suo muso nero rimase muto quando lo avvicinai a quei relitti. Ero rimasto in mutande e canottiera. Buttai per terra anche questi indumenti, come stracci, e nudo entrai nella doccia. L’urto dell’acqua mi calmò. Mi giravo sotto la pioggia di getti forti e bollenti, mi sfregavo e sbuffavo con energia esagerata, come per togliermi di dosso il contagio della torbida incertezza che appestava la stazione. Cercai nell’armadio una tuta da allenamento, di quelle che si potevano indossare anche sotto la tuta spaziale, e trasferii nella tasca le poche cose che avevo; nel taccuino sentii, come incastrato tra i fogli, qualcosa di duro, la chiave della mia casa terrestre, che rigirai tra le dita per un momento, non sapendo che farne. Alla fine la posai sul tavolo. Mi venne in mente che potevo avere bisogno di un’arma. Il mio temperino universale non rispondeva certo allo scopo, ma non possedevo altro e non avevo voglia di mettermi alla ricerca di una pistola a raggi gamma o qualcosa del genere. Mi sedetti su uno sgabello metallico in mezzo allo spazio libero, lontano da tutto. Desideravo stare solo e pensai con gioia che avevo a disposizione più di mezz’ora; era uno scrupolo superfluo, ma la puntualità meticolosa a tutti gli appuntamenti, importanti o no, è nella mia natura. Le lancette dell’orologio, sul quadrante di ventiquattr’ore, segnavano le sette. Il sole tramontava. Le sette, ora locale, erano le venti a bordo del Prometheus. Ormai Solaris doveva essere rimpicciolito, sul video di Moddard, fino a confondersi con le stelle. Ma perché rimpiangere il Prometheus? Chiusi gli occhi. Regnava un silenzio totale; si udiva solo di tanto in tanto, a intervalli regolari, il gemito delle tubature. Nel bagno le gocce d’acqua stillavano sommessamente sulla porcellana. Gibarian era morto. E se avevo capito bene le parole di Snaut, erano trascorse appena poche ore dal suo decesso. Che cosa avevano fatto del cadavere? Lo avevano sotterrato? In realtà, su quel pianeta, non sarebbe stato possibile. Per un po’ pensai concretamente a quelle ipotesi, quasi che la sorte del morto fosse di somma importanza, finché non mi accorsi dell’inutilità di simili ragionamenti; mi alzai e presi a camminare in diagonale per la stanza, avanti e indietro. Quando urtai con la punta del piede un piccolo zaino vuoto, vicino a una pila di libri accatastati, mi chinai a raccoglierlo. Non era vuoto. Conteneva una bottiglietta di vetro scuro, così leggera che sembrava soffiata nella carta. La guardai in controluce verso la finestra, sugli ultimi bagliori del funereo tramonto rossastro velato di lurida caligine. Che cosa mi prendeva? Perché mi occupavo di qualsiasi inezia mi capitasse per mano? Trasalii perché si era accesa la luce. Una fotocellula, ovviamente, sensibile all’avvicinarsi dell’oscurità. Aspettai che succedesse qualcosa, ma nell’ansia crescente lo spazio vuoto alle mie spalle mi preoccupava. Decisi di reagire. Avvicinai lo sgabello agli scaffali. Da questi tolsi il secondo volume della vecchia monografia di Hughes e Eugle, La storia di Solaris, che conoscevo bene, e appoggiato sulle ginocchia il suo dorso solidamente rilegato mi misi a sfogliarlo. La scoperta di Solaris era avvenuta cent’anni prima della mia nascita. Il pianeta gira intorno a due soli, uno rosso e uno azzurro. Per circa quarant’anni, dopo la scoperta, nessuna nave spaziale gli si era avvicinata. Si riteneva ancora valida, a quell’epoca, la teoria di GamowShapley sull’impossibilità della presenza di vita sui pianeti delle stelle doppie. L’orbita di questi corpi celesti, infatti, subisce una variazione ininterrotta, per il gioco di gravità alterno della coppia di soli. Ne derivano perturbazioni che di volta in volta accorciano o allungano l’orbita del pianeta, e dunque ogni forma di vita è distrutta sul nascere dalle radiazioni termiche o dal freddo glaciale. I grandi cambiamenti avvenivano in periodi di centinaia di migliaia di anni, cioè un tempo brevissimo da un punto di vista astronomico o biologico, poiché l’evoluzione esige centinaia di milioni, se non miliardi, di anni. Stando ai calcoli iniziali, Solaris, nel giro di cinquecentomila anni, si sarebbe avvicinato di mezza unità astronomica, cioè di circa settantacinque milioni di chilometri, al sole rosso, ed entro un altro milione di anni sarebbe piombato nella sua voragine rovente. Tuttavia, dopo una decina d’anni dalla sua scoperta, si rilevò che l’orbita non pareva mostrare le variazioni previste, quasi che fosse fissa quanto l’orbita dei pianeti del nostro sistema solare. Eppure le osservazioni e i calcoli, ripetuti in seguito con la massima precisione, avevano dato solo conferma di quello che già era noto: Solaris si muoveva su un’orbita variabile. A questo punto, dalla condizione di un pianeta fra i tanti che ogni anno vengono scoperti e che negli elenchi generali rimangono semplicemente segnalati con poche righe di descrizione, Solaris si trovò promosso al rango di corpo celeste di primario interesse. Quattro anni dopo questa scoperta, il pianeta fu studiato dalla spedizione di Ottenskjold, che orbitò intorno a esso con il Laokoon, accompagnato da due navi ausiliarie. Questa esplorazione costituì una ricognizione preliminare con carattere di provvisorietà e, anzi, d’improvvisazione, tanto più che non era attrezzata per sbarcare sul pianeta. In quell’occasione furono lanciati in orbite equatoriali e polari un gran numero di satellitiosservatorio automatici, il cui compito principale era la misurazione dei gradienti gravitazionali. Ma fu esaminata anche la superficie del pianeta, quasi completamente coperta dall’oceano, con rare terre emerse a forma di altipiani. La loro superficie complessiva non raggiungeva quella del territorio europeo, sebbene il diametro di Solaris fosse del venti per cento maggiore di quello della Terra. Quei frammenti deserti e rocciosi, disseminati irregolarmente, erano tutti concentrati nell’emisfero meridionale. Fu analizzata anche la composizione dell’atmosfera, e misurata con precisione la densità del pianeta, determinandone inoltre l’albedo e altre caratteristiche astronomiche. Com’era prevedibile, non fu individuato alcun segno di vita, né sulle terre, né nell’oceano. Durante i dieci anni successivi, Solaris, che adesso era al centro dell’attenzione di tutti gli osservatori di quel settore spaziale, rivelò la sorprendente tendenza a conservare costante, a dispetto dell’attrazione gravitazionale dei suoi soli, un’orbita che, indiscutibilmente, sarebbe dovuta essere variabile. Per un certo periodo la questione parve quasi sollevare uno scandalo, poiché (nell’interesse della scienza) doveva per forza trattarsi di un errore d’osservazione da imputare ai ricercatori che se ne occupavano o alle caratteristiche dei calcolatori impiegati. La mancanza di fondi ritardò, per tre anni, una vera e propria spedizione solaristica, fino al momento in cui Shannahan completò la sua squadra e ottenne dall’Istituto il comando di tre unità di tonnellaggio C, classe portanavette. Un anno e mezzo prima dell’arrivo della spedizione, partita dall’Alfa dell’Acquario, una seconda flotta d’esplorazione, per conto dell’Istituto, mise in orbita intorno a Solaris un satellite automatico, il Luna 247. Questo satellite, dopo tre ricostruzioni complete, eseguite a una decina d’anni d’intervallo, è tuttora funzionante. I dati che ha raccolto sono serviti a confermare definitivamente le osservazioni della spedizione di Ottenskjold circa il carattere attivo dei movimenti dell’oceano. Una nave di Shannahan rimase in orbita alta; le altre due, dopo alcune prove preliminari, si posarono su un ripiano roccioso di circa mille chilometri quadrati presso il Polo Sud del pianeta Solaris. I lavori della spedizione durarono diciotto mesi e, salvo un deplorevole incidente dovuto a un difetto meccanico di funzionamento, non incontrarono problemi. Tuttavia il gruppo di scienziati finì col dividersi in due opposte fazioni. Il pomo della discordia era l’oceano. In base alle analisi, tutti erano d’accordo sul fatto che si trattasse di una formazione organica (a quell’epoca nessuno osava ancora parlare di un essere vivente). Ma i biologi lo consideravano alla stregua di un corpo primitivo, simile a un nucleo gigantesco, a una singola cellula fluida di dimensioni planetarie (la chiamarono «formazione prebiologica»), che avvolgeva tutto il globo in un involucro colloidale, profondo in certi punti vari chilometri; i fisici, invece, prendevano in esame la possibilità che fosse una struttura straordinariamente e perfettamente organizzata, superiore forse, in quanto a complessità, anche agli organismi terrestri, poiché era in grado d’influire in modo attivo sull’andamento dell’orbita seguita dal pianeta. Non era stata formulata nessun’altra spiegazione per chiarire il comportamento di Solaris; inoltre i fisici planetologi avevano individuato un rapporto tra certi processi dell’oceano plasmatico e il valore dell’attrazione gravitazionale, che variava in corrispondenza del ricambio della materia dell’oceano. Furono quindi i fisici, e non i biologi, a coniare il termine paradossale di macchina plasmatica, intendendo con ciò una formazione priva forse di vita secondo i nostri concetti, ma capace d’intraprendere attività utili su scala (diciamolo subito) astronomica. In poche settimane, la polemica coinvolse le maggiori autorità, e per la prima volta la teoria di GamowShapley, incontestata da ottant’anni, fu messa in discussione. Per un certo tempo alcuni cercarono di difenderla, affermando che l’oceano non aveva nulla in comune con la vita, che non era nemmeno una formazione «para» o «prebiologica», ma solo una formazione geologica, insolita indubbiamente, ma capace soltanto di rendere stabile l’orbita di Solaris attraverso spostamenti di forze d’attrazione, e in proposito si richiamavano alla regola di Le Chatelier. All’opposto furono elaborate ipotesi, fra cui quella particolarmente complessa del CivitaVitta, secondo le quali l’oceano sarebbe stato frutto di uno sviluppo evolutivo: partendo dalla sua primitiva forma di preoceano, soluzione di sostanze chimiche in lenta reazione tra loro, e sotto la pressione delle circostanze ambientali (cioè dei cambiamenti d’orbita che minacciavano la sua esistenza), esso era riuscito a raggiungere lo stadio di «oceano omeostatico» senza passare attraverso la trafila di tutte le fasi di sviluppo terrestri, e saltando così la creazione di esseri mono o multicellulari, l’evoluzione vegetale e animale e la costituzione di un sistema nervoso e cerebrale. In altre parole, diversamente dagli organismi terrestri, non si era adattato all’ambiente attraverso centinaia di milioni di anni, tempo necessario all’apparizione di esseri dotati d’intelligenza, ma aveva dominato subito l’ambiente stesso. Teoria originale, in verità; nessuno, però, era riuscito a capire come facesse un oceano di gelatina appiccicosa a stabilizzare l’orbita di un corpo celeste. Da circa un secolo erano già state create apparecchiature, chiamate «gravitatori», che producevano campi di forze di gravitazione artificiali; ma era difficile immaginare come un vischio informe potesse raggiungere il risultato che i gravitatori ottenevano con complicate reazioni nucleari a temperature estremamente elevate. I giornali dell’epoca, destando la curiosità dei lettori e l’ira degli scienziati, erano colmi di assurdità sul tema «Il segreto di Solaris», non escluse quelle che mostravano l’oceano planetario come… un lontano parente della terrestre anguilla elettrica, detta comunemente torpedine. Quando si riuscì, almeno entro una certa misura, a dare una prima risposta al problema, risultò, come poi doveva puntualmente ripetersi nel campo degli studi solaristici, che la spiegazione non faceva che sostituire un enigma con un altro, a volte ancor più sconcertante. Le ricerche dimostrarono che l’oceano non funzionava affatto alla stessa maniera dei nostri gravitatori (cosa, del resto, chiaramente impossibile), bensì riusciva a modulare direttamente la metrica dello spaziotempo con l’effetto, fra l’altro, di provocare differenze nella misura degli intervalli di tempo lungo un meridiano di Solaris. Così, dunque, l’oceano non solo conosceva la teoria einsteinboeviana, ma anche ne utilizzava le implicazioni (cosa che, dal canto nostro, non eravamo in grado di fare). A questa conclusione, nel mondo scientifico scoppiò una delle più violente bufere del secolo. Le teorie universalmente accettate si sbriciolavano, nella letteratura scientifica comparvero articoli eretici e sull’alternativa tra oceano intelligente e s emplice gelatina capace di esercitare un influsso sulla forza gravitazionale si accese la polemica. Tutto ciò risaliva a una quindicina d’anni prima della mia nascita. Al tempo in cui andavo a scuola, Solaris, alla luce dei dati raccolti nel frattempo, era già comunemente conosciuto come pianeta provvisto di forma di vita, anche se limitata a un solo abitante. Il secondo volume di Hughes e Eugle, che stavo sfogliando soprappensiero, cominciava con una sistematica delle forme di vita molto originale e direi divertente. La tabella di classificazione dava la seguente tassonomia: «Tipo, «Polytheria»; ordine, «Syncytialia»; classe, «Metamorpha»«. Pareva quasi che conoscessimo dio sa quanti esemplari di quella specie, mentre in realtà ce n’era uno solo… che pesava però, questo è vero, diciassettemila miliardi di tonnellate. Sotto le mie dita scorrevano i diagrammi a colori, i grafici variopinti, le analisi spettrografiche che mostravano tipo e frequenza dei ricambi basilari e delle reazioni chimiche. Quanto più procedevo nella lettura dell’imponente volume, tanto più passavano pagine fitte di formule matematiche; a leggere quel libro si sarebbe davvero potuto credere che la nostra conoscenza di quell’esemplare della classe «Metamorpha» (che, avvolto attualmente dalle tenebre della notte di quattro ore, si stendeva quindici metri sotto lo scafo metallico della stazione) fosse completa. In realtà non tutti convenivano con la definizione di «essere vivente» e tanto meno col fatto di chiamare «raziocinante» l’oceano. Posai rumorosamente sullo scaffale l’enorme volume e presi il successivo. Si divideva in due parti. La prima era dedicata al riassunto degli innumerevoli tentativi di entrare in contatto con l’oceano. Quand’ero a scuola, come ricordavo fin troppo bene, quegli esperimenti erano argomento d’infinite storielle, celie e barzellette. A confronto delle infinite speculazioni suscitate dal problema, la scolastica medievale appariva come un modello di chiarezza e concretezza. La seconda parte, di circa milletrecento pagine, comprendeva esclusivamente la bibliografia sull’argomento; la letteratura relativa, in originale, non sarebbe entrata nella stanza in cui mi trovavo. I primi tentativi di contatto avvennero attraverso speciali apparecchi elettronici che trasmettevano nella massa della gelatina vivente gli impulsi emessi dagli interlocutori. L’oceano vi prese parte attiva, modificando gli apparecchi stessi. Tutto avveniva però nella più fitta oscurità. Parte attiva… ma in che senso? L’oceano modificò certi elementi delle apparecchiature che vi furono immerse: cambiarono, quindi, le frequenze delle scariche; quanto agli apparati di registrazione, furono sovraccaricati da una massa enorme di segnali, simili a frammenti di colossali operazioni di calcolo. Ma che cosa significava tutto ciò? Erano dati sul momentaneo stato di eccitamento dell’oceano? Gli impulsi che altrove, a mille miglia dagli studiosi, stavano provocando la nascita delle sue enormi creazioni? O erano le sue creazioni artistiche? Come saperlo, se non si riuscì a ottenere due volte la medesima reazione a uno stesso stimolo? In un caso, infatti, capitava di avere in risposta un’esplosione d’impulsi che quasi facevano saltare per aria le apparecchiature, nell’altro il silenzio assoluto. Dunque non era possibile la ripetizione degli esperimenti? Sembrava di essere costantemente a un passo dalla decifrazione, ma la mole degli appunti non faceva che crescere. Allora furono costruiti dei cervelli elettronici con una potenza ineguagliabile di rielaborazione delle informazioni. Essi conseguirono, effettivamente, alcuni buoni risultati. L’oceano, fonte d’impulsi elettrici, magnetici e gravitazionali, parlava un linguaggio matematico; certe sequenze delle sue scariche di corrente si potevano classificare, impiegando modelli d’analisi terrestri assolutamente astratti e applicando le teorie della statistica; furono rilevate omologie strutturali analoghe a quelle già osservate, nel campo della fisica, nei rapporti reciproci tra energia e materia, tra grandezze finite e non finite, tra elementi e campi. Tutto ciò condusse gli scienziati alla persuasione di trovarsi di fronte a un essere pensante, costituito da un mare di protoplasma simile a un cervello ingrandito milioni di volte, che avvolgeva il pianeta e che impiegava il proprio tempo in complicati ragionamenti sull’essenza e realtà dell’universo; perciò quel che i nostri strumenti riuscivano a captare erano solo le briciole di uno sterminato monologo, colto a tratti, che andava svolgendosi eternamente a profondità che superavano la nostra comprensione. Questo, per quanto riguarda i matematici. Tali ipotesi, secondo alcuni, esprimevano una sottovalutazione delle possibilità umane, erano come un inchinarsi davanti all’ignoto, ridando linfa all’antica dottrina dell’ ignoramus et ignorabimus. Altri ritenevano invece che fossero solo fandonie, nocive e sterili, e che le ipotesi matematiche, che indicavano in questo cervello enorme, elettronico e plasmatico al tempo stesso, il fine ultimo e la summa dell’esistenza, rispecchiassero la mitologia del nostro tempo. Altri ancora… ma gli scienziati e i pareri erano una legione. E ciò valeva per l’intero campo degli esperimenti di «contatto e comunicazione». Confrontando quest’ultimo con altri rami degli studi di solaristica, rami nei quali, in particolare durante l’ultimo quarto di secolo, la specializzazione aveva avuto un forte sviluppo, si osservava che il solarista cibernetico stentava a farsi capire dal solarista simmetriologo. «Come sperate di comunicare con l’oceano se non ci riuscite fra voi?» aveva chiesto una volta, scherzosamente, Veubeke, che al tempo dei miei studi era direttore dell’Istituto. Ma quella battuta aveva un fondo di verità. L’oceano era stato catalogato nella classe Metamorpha perché dalla sua superficie ondeggiante nascevano forme molto dissimili fra loro e da quelle terrestri. Adattamento, conoscenza o altro, la vera finalità di tali eruzioni violente di creatività plasmatica rimaneva un enigma. Rimettendo a posto sullo scaffale il volume, così ponderoso che dovevo reggerlo con due mani, mi dicevo che tutta quella letteratura scientifica che ingombrava le biblioteche, era un’inutile zavorra, un pantano senza fondo di dati, e che ci trovavamo allo stesso punto del giorno in cui, settantotto anni prima, avevano cominciato ad accumularli; anzi, la situazione, in pratica, era andata peggiorando, poiché tutto lo sforzo di quei decenni era risultato vano. Di preciso conoscevamo soltanto le contraddizioni. L’oceano non si serviva di macchine e non ne costruiva; però sembrava che, in determinate circostanze, potesse farlo, poiché aveva modificato alcune parti degli apparecchi immersi. Ciò era accaduto nel primo e nel secondo anno dell’esplorazione; in seguito l’oceano aveva ignorato tutti gli esperimenti eseguiti dai ricercatori con pazienza da certosini, quasi avesse perso l’interesse per i nostri apparecchi e i nostri tentativi (e, conseguentemente, per noi). Non possedeva — continuo a enumerare le nostre «conoscenze per esclusione» — sistema nervoso e cellulare di sorta, né struttura proteica; non sempre reagiva agli stimoli, nemmeno ai più potenti (così, per esempio, «ignorò» la catastrofe della nave ausiliaria a razzi della seconda spedizione di Giese, che distrusse il plasma in un raggio di due chilometri, con l’esplosione nucleare delle sue pile atomiche, nel momento del suo impatto sulla superficie del pianeta dopo essere caduta da trecento chilometri d’altezza). A poco a poco si cominciò a mormorare, nei circoli scientifici, che il «caso Solaris» era una causa persa; in particolare nel consiglio di amministrazione dell’Istituto, all’interno del quale, negli ultimi anni, si erano alzate diverse voci a chiedere il taglio dei fondi per le future ricerche. Nessuno osava ancora parlare di liquidazione completa della base, perché sarebbe stata una dichiarazione troppo esplicita di fallimento, ma nelle conversazioni non ufficiali si diceva che bisognava augurarsi soltanto di trovare una via d’uscita onorevole dallo «scandalo Solaris». Per molti, tuttavia, e in particolare per i giovani, questo «scandalo» divenne una sorta di pietra di paragone delle proprie capacità: «In definitiva» dicevano «la posta è approfondire l’analisi della civiltà di Solaris. E’ un gioco che vale la candela, una sfida ai limiti della conoscenza umana». Per un certo periodo di tempo fu molto popolare l’idea (divulgata ampiamente dai media) che l’oceano pensante che avvolge Solaris fosse un gigantesco cervello, in anticipo d’un milione di anni sulla nostra civiltà; che fosse una specie di yogi cosmico, un saggio, immagine dell’onniscienza, che da molto tempo aveva compreso l’inutilità di qualsiasi attività e che perciò manteneva nei nostri confronti un silenzio assoluto. Ma questo era semplicemente falso, poiché l’oceano vivente agiva, eccome! In modo diverso, però, dalla nozione di attività degli uomini. Non costruiva città, né ponti, né macchine volanti, e non cercava di vincere o valicare lo spazio interstellare (vittoria inestimabile, in nome della quale vari difensori dell’uomo ne sostenevano la superiorità); si dedicava invece a migliaia di trasformazioni, a una «autometamorfosi ontologica»… nella solaristica, la terminologia scientifica non fa mai difetto. D’altra parte, chiunque s’immerga nello studio delle numerose problematiche legate alle costruzioni di Solaris ha l’impressione di trovarsi dinanzi a creazioni intelligenti, e talvolta geniali, mescolate senza ordine e senza scopo a prodotti di una stupidità confinante con l’idiozia. Da ciò è nato, per antitesi, il concetto di «oceano debilitato». Queste ipotesi riesumavano e resuscitavano uno dei più antichi problemi filosofici: il rapporto tra coscienza, spirito e materia. Occorreva non poco coraggio per parlare, come ha sostenuto per primo Du Haart, di «oceano cosciente». Questo problema, subito classificato come metafisico dai filosofi della scienza, ha costituito da allora il sottofondo di tutte le discussioni e di tutte le controversie. Era possibile il pensiero senza coscienza? Ma… potevano chiamarsi pensiero i processi che si svolgevano nell’oceano? Una montagna è solo una pietra enorme? Un pianeta è una montagna immensa? Si potevano usare quelle definizioni, ma la nuova scala di grandezza faceva emergere nuove forme e nuovi fenomeni. Il problema era diventato la versione contemporanea della quadratura del cerchio. Ogni pensatore indipendente cercava di portare il proprio contributo alla conoscenza di Solaris. Fiorivano nuove teorie che sostenevano l’esistenza di uno stato di decadenza, di regressione, succeduto a una stagione alta di «fioritura intellettuale» dell’oceano; in pratica venivano a considerarlo come un tessuto canceroso sviluppatosi dal corpo dei precedenti abitanti del pianeta, che da esso erano stati divorati e assorbiti, fusi in quella forma, eterna e autoriproduttrice, di organismo sopracellulare. Nella luce bianca fluorescente, che imitava quella terrestre, spostai dal tavolo gli apparecchi e i libri che l’ingombravano, stesi sul suo piano di plastica la mappa di Solaris e la osservai, appoggiando le mani al bordo metallico. L’oceano vivente aveva i suoi alti fondali e le sue fosse; le sue isole, coperte da strati minerali erosi, facevano pensare che fossero state, un tempo, una parte del fondo. Regolava anche l’emergere e l’affondare delle formazioni rocciose immerse nel suo grembo? A questo non c’era risposta. Osservavo sulla carta gli immensi emisferi, dipinti in diversi toni di viola e di azzurro, e fui sopraffatto, come poche altre volte nella vita, da un senso di stupore, lo stesso di quando, da ragazzo, ero venuto a conoscenza per la prima volta dell’esistenza di Solaris. Non so come, l’ambiente in preda al caos, l’inquietante mistero intorno alla morte di Gibarian, il mio stesso futuro, mi apparivano a un tratto insignificanti e non me ne curavo, immerso nella contemplazione di quell’enigma, sconvolgente per un essere umano. I punti più interessanti del pianeta vivente portavano il nome dei ricercatori che ne avevano condotto la prima esplorazione. Stavo ispezionando l’affioramento di Texhall che lambisce gli arcipelaghi subequatoriali, quando ebbi la sensazione di uno sguardo posato su di me. Ero ancora chino sulla mappa, ma già non la vedevo più, ero come paralizzato. La porta, di fronte a me, era barricata dai contenitori, ai quali avevo aggiunto uno stipetto. «Dev’essere un automa» pensai, sebbene non ne avessi trovato alcuno, nella camera, né potesse essere entrato senza essere visto. La pelle della nuca e delle spalle cominciava a scottare, sentivo il peso insopportabile di quello sguardo fisso. Non mi accorsi che sotto quella pressione mi stavo appoggiando sempre più forte al tavolo, che cominciò a scivolare in avanti. Quel movimento fu una specie di liberazione. Mi girai di scatto. La stanza era vuota. Dinanzi a me si apriva solo il buio della finestra semicircolare. La sensazione di una presenza non svaniva. Le tenebre mi osservavano, immense, informi, cieche, senza limiti. Nessuna stella rischiarava l’oscurità di là dai vetri. Tirai le tende. Ero alla stazione da meno di un’ora ma cominciavo a capire che vi si verificavano casi di mania di persecuzione. Collegai involontariamente questo pensiero alla morte di Gibarian. Avendolo conosciuto, avevo creduto fino a quel momento che nulla potesse offuscare la sua mente. Non ne ero più molto sicuro. Ero in piedi accanto al tavolo, nel mezzo della camera. Si calmava l’affanno e sentivo che il sudore della fronte si raffreddava. Che cosa mi era venuto in mente un attimo prima? Ah, ecco: gli automi. Era molto strano che non ne avessi incontrati. Dov’erano spariti? L’unico col quale, a distanza, avevo avuto un contatto, era la guida automatica per l’assistenza dei voli in arrivo. E gli altri? Guardai l’orologio. Era ora di tornare da Snaut. Uscii. Il corridoio era scarsamente illuminato da esili tubi fluorescenti che correvano sul soffitto. Oltrepassai due porte e raggiunsi quella su cui era scritto il nome di Gibarian. Vi sostai a lungo davanti. L’intera stazione era immersa nel silenzio. Afferrai la maniglia. Veramente, non avevo intenzione d’entrare. Ma cedette, e la porta si socchiuse su uno spiraglio dapprima nero, poi si accesero delle lampade. Chiunque fosse passato nel corridoio mi avrebbe notato. Attraversai la soglia di scatto e chiusi la porta alle mie spalle, silenziosamente ma con fermezza. Mi voltai. Stavo con la schiena quasi appoggiata alla porta. La camera era più grande della mia, con una finestra panoramica velata per tre quarti da una tenda celeste a fiorami rosa, probabilmente portata dalla Terra. Lungo le pareti si alternavano scaffali di biblioteca e stipetti, gli uni e gli altri verniciati di verde chiaro con riflessi metallizzati argentei. Gli oggetti che in precedenza vi erano riposti si trovavano adesso per terra, in cumuli, tra sedie e poltrone. Due piccoli tavolini a rotelle mi sbarravano il passo, sepolti sotto mucchi di pubblicazioni che i portariviste stracolmi non riuscivano più a contenere. Alcuni libri aperti avevano le pagine macchiate dai liquidi usciti da provette sbreccate e da boccette dai tappi corrosi: recipienti di vetro d’un tale spessore che non si sarebbero rotti per una semplice caduta, anche da notevole altezza. Sotto la finestra c’era una scrivania, ma era stata ribaltata su un fianco e adesso schiacciava una lampada da lavoro, dal lungo braccio snodabile, nei cassetti semiaperti erano incastrate due gambe di uno sgabello. Una vera marea di carte, di fogli e foglietti manoscritti copriva il pavimento. Riconobbi la scrittura di Gibarian. Nel raccogliere alcuni fogli alla rinfusa, mi accorsi che il mio braccio produceva un’ombra doppia. Mi voltai. Sembrava che la tenda avesse preso fuoco: avvampava per una linea tagliente d’incandescenza azzurra che si allargava velocemente. Scostai la stoffa e l’incendio abbagliante mi colpì dritto negli occhi. Il sole occupava un terzo dell’orizzonte. Spingeva via, dinanzi a sé, legioni d’ombre spettrali generate nel cavo delle onde, che si allungavano verso la stazione. Era l’alba. Dopo un’ora di notte, in quella zona sorgeva il sole azzurro del pianeta. Un relais spense le luci del soffitto mentre tornavo ai fogli che avevo lasciato. Mi capitò sott’occhio la descrizione sommaria di un esperimento progettato tre settimane prima: Gibarian pensava di sottoporre il plasma a un’azione fortissima di raggi X. Capii, dal contesto, che era destinata a Sartorius, il quale avrebbe dovuto provvedere all’attuazione; quella che avevo in mano era una copia. I fogli di carta bianca cominciavano ad abbagliarmi. Il giorno nascente era diverso da quello che l’aveva preceduto. Sotto il cielo arancione del sole meno caldo, l’oceano, tinto di lucentezza sanguigna, era quasi sempre coperto da una caligine rossastra che fondeva in un tutt’uno le onde, le nuvole e il firmamento. Ora tutto ciò era sparito. Benché filtrata dalla stoffa a fiorami rosa, quella luce ardeva come una potente lampada al quarzo. Le mie braccia abbronzate parevano grigie. La camera era interamente cambiata, tutto ciò che aveva avuto una sfumatura rossa diventava d’un marrone smorto, color fiele, mentre gli oggetti bianchi, verdi e gialli, ravvivati, sembravano brillare di luce propria. Socchiudendo gli occhi mi arrischiai a gettare uno sguardo dallo spiraglio delle tende: il cielo era un mare di fuoco bianco; sotto di esso, l’oceano tremolava e si muoveva come metallo fuso. Abbassai le palpebre; nel mio campo visivo si allargavano due cerchi rossi. Sul ripiano del lavandino (che aveva un bordo sbreccato) trovai un paio di occhiali scuri e li infilai; mi coprivano quasi mezza faccia. La tenda della finestra ardeva come una lampada a vapori di sodio. Lessi ancora i fogli, raccogliendoli dal pavimento e disponendoli in ordine sull’unico tavolino non rovesciato. Mancava una parte di testo. Poi trovai le relazioni sugli esperimenti eseguiti. Ne ricavai che l’oceano era stato sottoposto ai raggi per quattro giorni, in un punto a duemila chilometri a nordest dalla posizione attuale. Rimasi sbalordito, poiché l’uso dei raggi X era vietato dall’ONU per i loro effetti letali, ed ero assolutamente sicuro che nessuno avesse trasmesso alla Terra una richiesta di autorizzazione per quel genere di esperimenti. A un certo punto, alzando il capo, vidi la mia immagine nello specchio di un’anta socchiusa, un viso cereo con gli occhiali scuri. Anche la camera era strana, tutta riflessi bianchi e azzurri. Dopo qualche minuto si udì un cigolio prolungato, perché all’esterno le saracinesche a chiusura ermetica si abbassavano sulla finestra; l’interno si oscurò e si accese una luce artificiale, stranamente pallida. Ora la temperatura cominciava ad aumentare, nonostante il normale ronzio dei condizionatori fosse salito fino a un miagolio. L’impianto di raffreddamento della stazione lavorava a pieno regime. Tuttavia l’opprimente calore cresceva. Udii un rumore di passi. Qualcuno avanzava nel corridoio. In due salti silenziosi fui dietro la porta. I passi rallentarono e si fermarono. Il nuovo venuto era adesso immobile al di là dell’uscio. La maniglia si abbassò piano; senza pensarci, automaticamente, la afferrai dalla mia parte e la fermai. Lo sforzo non aumentò, ma nemmeno diminuì. Anche quel «qualcuno» dall’altra parte della porta restava in silenzio, forse sconcertato. Tenemmo la maniglia per un bel po’. Poi a un tratto mi scattò in mano e si rialzò silenziosamente, e un rumore lieve che si spegneva mi disse che l’altro se n’era andato. Rimasi ancora ad ascoltare, ma tutto era silenzio. 3. GLI OSPITI Piegai in quattro, frettolosamente, gli appunti di Gibarian e li misi in tasca. Mi avvicinai lentamente al guardaroba e guardai dentro: le tute e gli altri capi di vestiario erano schiacciati e pressati in un angolo, come se qualcuno vi si fosse nascosto. Da sotto un monte di carte, sul pavimento, spuntava l’angolo di una busta. La raccolsi. Era indirizzata a me. La aprii col cuore in gola e mi costò un enorme sforzo spiegare il foglietto contenuto. Con la sua scrittura regolare, estremamente piccola ma leggibile, Gibarian aveva annotato: «Ann. Solar.» vol. 1, Appendice. Cfr. «Vot Separat.» Messenger sul caso E, in Ravintzer, «Piccolo apocrifo». Tutto qui, non una parola di più. L’andamento dei caratteri testimoniava la fretta. Era un’annotazione di una certa importanza? Quando l’aveva scritta? Dovevo raggiungere al più presto la biblioteca. Conoscevo quell’Appendice del primo Annuario di Solaristica o, meglio, sapevo della sua esistenza, senza però averla mai letta, poiché aveva un valore eminentemente storico. Di un certo Ravintzer o del suo Piccolo apocrifo non sapevo nulla, nemmeno per sentito dire. Che fare? Ero già in ritardo di quasi un quarto d’ora. Ancora una volta, dalla porta, girai lo sguardo all’intorno, per la stanza. Soltanto allora notai il letto, fissato verticalmente contro la parete e mascherato da una grande mappa di Solaris srotolatagli davanti. Dietro la carta pendeva qualcosa. Un registratore tascabile, nel suo astuccio. Estrassi l’apparecchio e riappesi l’astuccio, il registratore lo misi in tasca. Guardai il contatore: il nastro era quasi completamente inciso. Giunto di fronte alla porta, mi fermai per un secondo, cercando di concentrarmi su qualsiasi rumore, nel silenzio imperante all’esterno. Niente. Aprii la porta e il corridoio mi parve un antro nero; appena mi tolsi gli occhiali, però, vidi la debole luce che veniva dal soffitto. Chiusi la porta alle mie spalle e mi diressi verso sinistra, dove si trovava la cabina radio. Mi trovai in un locale circolare dal quale partivano a raggiera alcuni corridoi e, nell’oltrepassare la sala comune dei bagni, scorsi una forma grande e oscura, confusa nella penombra. Mi fermai come impietrito. Dal fondo di quel corridoio laterale avanzava a passo lento, dondolante, un’immensa donna di pelle nera. Intravidi il balenio del bianco dell’occhio e quasi contemporaneamente udii lo schiocco lieve dei suoi piedi scalzi. Indossava solo un gonnellino di paglia intrecciata, che aveva un bagliore giallo; i seni enormi ondeggiavano liberi e le braccia scure erano grosse come la coscia di un uomo. Mi incrociò senza degnarmi di uno sguardo, alla distanza di circa un metro, e proseguì dimenando il gonnellino di paglia, simile alle sculture neolitiche che si vedono talora nei musei di antropologia. Alla curva del corridoio svoltò e sparì nella cabina di Gibarian. Per un attimo, sulla soglia, la sua sagoma si stagliò nettamente, delineata sulla luce più intensa che si accese all’interno. La porta si chiuse silenziosamente; tornai a essere solo. Con la mano destra afferrai il pugno della sinistra e lo strinsi con forza, fino a far scricchiolare le giunture. Mi guardai attorno intontito. Che cos’era successo? Che cosa avevo visto? Bruscamente, come uno schiaffo, mi colpì il ricordo degli ammonimenti di Snaut. Che cosa significava? Chi era quella Venere mostruosa? Da dove proveniva? Feci un passo, uno solo, verso la cabina di Gibarian, e mi fermai di colpo. Sapevo bene che non sarei entrato. Con le narici allargate, inspirai l’aria. Qualcosa non andava, qualcosa non quadrava… Ah! Inconsciamente mi ero aspettato di sentire l’afrore caratteristico del suo sudore, ma in verità non l’avevo percepito, nemmeno quando mi era passata vicino. Non so per quanto tempo rimasi fermo, appoggiato al metallo freddo della paratia. La stazione era immersa nel silenzio, l’unico rumore era sempre quello, monotono, dei compressori del condizionamento d’aria. Mi diedi un leggero schiaffo a mano aperta sul viso e lentamente mi diressi alla cabina radio. Quando abbassai la maniglia, udii una voce forte: — Chi è? — Sono io, Kelvin. Snaut era seduto alla scrivania, tra una pila di cassette d’alluminio e la stazione trasmittente, e mangiava carne in scatola, direttamente dal barattolo. Mi chiesi perché avesse eletto a proprio domicilio la cabina radio. Stavo fermo davanti alla porta, guardando intontito il movimento regolare delle mascelle di Snaut, quando mi accorsi di avere fame anch’io. Mi avvicinai agli stipetti, cercai un piatto meno impolverato degli altri, presi a mia volta una scatola di carne e sedetti di fronte a lui. Allora Snaut si alzò, recuperò un thermos da uno scaffale a muro e versò un bicchiere di brodo caldo a testa. Posò il thermos per terra, poiché sulla tavola non c’era posto, e domandò: — Hai visto Sartorius? — No, dov’è? — Su, di sopra. Al livello superiore c’era il laboratorio. Continuammo a mangiare, in silenzio, fino a quando non raschiammo il fondo del barattolo vuoto. Nella cabina radio era notte. La finestra era chiusa ermeticamente, i quattro globi fluorescenti appesi al soffitto erano accesi. Sugli zigomi di Snaut la pelle tesa era coperta di piccole vene rosse. Indossava un pullover nero, floscio e sfilacciato. — Che cos’hai? — domandò. — Niente. Che cosa dovrei avere? — Sei tutto sudato. Mi passai la mano sulla fronte. Effettivamente era coperta di sudore, doveva essere la reazione all’ultima emozione. Il mio compagno mi guardava con attenzione. Dovevo dirglielo? Avrei preferito che mi mostrasse maggiore fiducia. Che partita si giocava laggiù, contro chi e in quale incomprensibile modo? — Fa caldo — dissi. — Pensavo che da voi il condizionamento funzionasse meglio. — Entro un’ora si stabilizzerà. Sei sicuro che sia solo il caldo? Mi guardava fisso negli occhi. Io continuavo a masticare con diligenza, fingendo di non accorgermene. — Che cos’hai intenzione di fare? — mi domandò infine, quando terminammo di mangiare. Gettò alla rinfusa stoviglie e scatolette vuote nell’acquaio sotto la finestra e tornò alla sua poltrona. — Mi adeguerò — risposi flemmaticamente. — Avete qualche programma di ricerche? Qualche nuova sollecitazione, raggi X o qualcosa del genere, no? — Raggi X? — alzò le sopracciglia. — Come lo sai? — Non lo ricordo adesso. Me l’ha detto qualcuno. Forse a bordo del Prometheus. Allora? State già facendo qualcosa? — Non conosco i particolari. Era un’idea di Gibarian. L’ha messa in opera con Sartorius. Ma come fai a saperlo? Alzai le spalle. — Non conosci i particolari? Dovresti conoscerli, è il tuo… — lasciai la frase in sospeso. Non rispose. Il miagolio dei condizionatori scemò, la temperatura si mantenne a un livello sopportabile. Nell’aria persisteva un rumore regolare, come il ronzio di un moscone. Snaut si alzò, si avvicinò al quadro di comando e cominciò a gingillarsi con le manopole, senza scopo, poiché l’interruttore generale era sullo STOP. Giocherellò per un momento e poi, senza voltare il capo, osservò: — Bisognerà rispettare alcune formalità, in proposito… sai. — Davvero? Si girò e mi scrutò con aria irritata. Non posso negare che volutamente cercavo di farlo uscire dai gangheri; ma poiché non capivo a che gioco stesse giocando, preferii trattenermi. Il suo pomo d’Adamo andava su e giù, sopra lo scollo del corpetto di maglia nera. — Sei stato da Gibarian — disse infine. Non era una domanda. Alzai le sopracciglia e lo guardai tranquillamente in faccia. — Sei stato nella sua stanza — ripeté. Feci una mossa impercettibile con la testa, come per dire «può darsi» o «se lo dici tu…». Volevo che continuasse a parlare. — Chi c’era, lì? — domandò. Sapeva di lei! — Nessuno. Chi poteva esserci? — risposi. — Perché non mi hai lasciato entrare? Sorrisi. — Perché ero spaventato. Dopo il tuo ammonimento, quando si è mossa la maniglia, l’ho trattenuta istintivamente. Perché non mi hai detto che eri tu? Ti avrei fatto entrare. — Pensavo fosse Sartorius — rispose incerto. — E allora? — Cosa ne pensi di quel che è successo là dentro? — ribatté, opponendo domanda a domanda. Esitai. — Devi saperlo meglio di me. Dov’è lui? — Nel frigo — rispose prontamente. — L’abbiamo portato stamani, subito… tenuto conto del caldo. — Dove l’hai trovato? — Nell’armadio. — Nell’armadio? Era morto? — Il cuore batteva ancora, ma non respirava. Era agonizzante. — Hai cercato di salvarlo? — No. — Perché? Esitò. — Non ho fatto in tempo. E’ morto prima che riuscissi a stenderlo in terra. — Era in piedi nell’armadio? Tra le tute? — Sì. Si avvicinò a una piccola scrivania in un angolo e ne prese un foglio di carta. Me lo porse. — Ho steso un verbale provvisorio — mi disse. — E’ un bene che tu abbia perquisito la sua camera. Causa della morte… Iniezione di una dose mortale di Pernostal. Sta scritto lì… Scorsi rapidamente il breve testo. — Suicidio… — ripetei piano. — Qual è la causa? — Esaurimento… depressione… chiamalo come vuoi. Ne sai più di me. — So solo ciò che vedo — risposi, e lo guardai negli occhi. Di sotto in su, poiché era in piedi davanti a me. — Che cosa vuoi dire, con questo? — mi domandò tranquillamente. — Si è iniettato il Pernostal e si è nascosto nell’armadio. Sì? Quindi non era depressione, non era esaurimento, ma un’acuta psicosi. Paranoia… certamente gli sembrava di vedere qualcosa… — dissi lentamente, guardandolo negli occhi. Si allontanò verso il quadro di comando della radio e ricominciò a gingillarsi con le manopole. — Qui c’è la tua firma — ripresi dopo un lungo silenzio. — E Sartorius? — E’ nel laboratorio. Te l’ho già detto. Non si fa vedere. Fino a… suppongo che… — Che cosa? — Che si sia chiuso dentro. — Si è chiuso dentro? Ah, si è chiuso. Forse si è barricato? — Forse. — Snaut… — gli dissi — c’è qualcun altro nella stazione. — L’hai visto? Aveva inclinato la testa e mi osservava. — Mi hai messo in guardia tu. Contro chi? Sono allucinazioni? — Che cosa hai visto? — E’ una persona, vero? Taceva. Si voltò verso la paratia, come se non volesse mostrare la faccia. Tamburellò con le dita sulla lastra metallica. Osservai le sue mani. Sulle nocche non c’erano più tracce di sangue. Di colpo ebbi un’idea brillante. — Questa persona è reale — dissi piano, quasi bisbigliando, come se gli stessi rivelando un segreto che non doveva essere udito da altri. — E’ vero? Si può… toccarla. Si può… ferirla. Oggi stesso l’hai vista, l’ultima volta che è passata nel corridoio. — Come lo sai? — Non si girò. Continuava a stare fermo davanti alla parete, sfiorandola col petto, mentre io parlavo alle sue spalle. — Prima del mio atterraggio… poco prima… Si contrasse, come fulminato. Si voltò e vidi i suoi occhi sbarrati. — Tu! — disse. — Chi sei tu? Sembrava quasi che volesse saltarmi addosso. Questo non me l’aspettavo. La situazione si era capovolta. Non credeva che fossi colui che dicevo di essere? Che cosa significava? Mi guardava, atterrito. Alienazione mentale? Intossicazione? Tutto era possibile. Ma avevo visto quella creatura: dunque, anch’io… oppure…? — Chi era? — domandai. Queste parole lo calmarono. Mi scrutò ancora un istante, come se non riuscisse a credermi. Già prima che aprisse bocca, sapevo di aver fatto un passo falso, e che non mi avrebbe risposto. Lentamente sedette sulla sua poltrona, prendendosi la testa tra le mani. — Quel che succede qui… — disse piano. — Delirio… — Chi era? — domandai ancora una volta. — Se non lo sai… — borbottò. — Allora? — Allora niente. — Snaut — dissi — siamo sufficientemente lontani da casa. Cerchiamo di giocare a carte scoperte. E’ già tutto così complicato. — Che cosa vuoi? — Che tu mi dica chi hai visto. — E tu? — chiese con diffidenza. — Mi ostacoli. Io ti dirò tutto e anche tu me lo dirai. Puoi essere sicuro che non ti prenderò per matto, poiché so… — Per matto? Mio Dio — cercò di sorridere. — Non hai capito niente, amico, proprio niente… Quella sarebbe una liberazione! Se avesse pensato che si trattava di pazzia, non avrebbe fatto quel che ha fatto. Vivrebbe… — Allora, ciò che hai scritto nella relazione è falso? — Ma certo! — Perché non scrivi la verità? — Perché…? — ripeté. Cadde il silenzio. Di nuovo brancolavo nel buio, non capivo niente; per un momento avevo pensato di riuscire a convincerlo che, con la buona volontà di entrambi, saremmo riusciti a risolvere l’enigma. Perché non voleva parlare? — Dove sono gli automi? — domandai. — Nei magazzini. Li abbiamo chiusi lì tutti, eccetto quelli in servizio all’aeroporto. — Perché? Di nuovo non rispose. — Non vuoi dirmelo? — Non posso. C’era, in questo, qualcosa che non riuscivo ad afferrare. Forse era meglio andare da Sartorius? Mi ricordai del foglietto, che subito mi parve della massima importanza. — Come ti immagini il nostro lavoro in queste condizioni? — domandai. Alzò le spalle con indifferenza. — Che importanza può avere? — Ah, è così? Allora, che cosa pensi di fare? Rimase muto. Nel silenzio si udirono dei passi di piedi nudi. Tra strumenti plastificati e nichelati, tra gli alti stipi pieni di congegni elettronici, vetri, apparecchi di precisione, quell’eco attutita di un passo indolente suonava come lo scherzo di qualche mattoide. I passi si avvicinavano. Mi alzai, guardando con la massima attenzione Snaut. Tendeva l’orecchio, con gli occhi socchiusi, ma non sembrava spaventato. Allora non era di lei che aveva paura? — Da dove salta fuori? — domandai. Indugiava a rispondermi. — Non vuoi dirmelo? — Non lo so. — Bene. Il rumore di passi si allontanò e si spense. — Non mi credi? — disse. — Ti do la mia parola che non lo so. In silenzio aprii l’armadio delle tute spaziali e cominciai a spostarle, spingendo da parte gli involucri pesanti e vuoti. Come mi aspettavo, trovai appese ad alcuni ganci le pistole a gas, che servivano a muoversi in condizioni di assenza di gravità. Non erano un granché, ma pur sempre armi. Meglio di niente. Controllai il caricatore e misi a tracolla le cinghie della fondina. Snaut mi guardava attento. Mentre regolavo la lunghezza della cinghia, mostrò in un sorriso sarcastico i denti gialli. — Buona caccia — disse. — Grazie mille — replicai avviandomi verso la porta. Si alzò dalla poltrona. — Kelvin! Lo guardai. Non sorrideva più. Non ricordavo di avere mai visto una faccia così stanca. — Kelvin, non è… io… veramente, non posso. Aspettai che mi dicesse ancora qualcosa, ma muoveva solo le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Mi girai e uscii, senza una parola. 4. SARTORIUS Il corridoio era vuoto. All’inizio correva dritto, poi svoltava a destra. Non ero mai stato nella stazione, ma per sei settimane, sulla Terra, avevo vissuto per addestramento all’interno di una sua ricostruzione che si trovava nell’Istituto. Sapevo dove portava la scaletta d’alluminio. La biblioteca non era illuminata. Trovai l’interruttore a tentoni. Il primo volume dell’ Annuario di Solaristica con l’Appendice, non c’era. Controllai nel registro la posizione del libro: era da Gibarian, e così pure il Piccolo apocrifo. Spensi la luce e scesi la scala. Nonostante avessi udito i passi allontanarsi poco prima, avevo paura di entrare nella cabina di Gibarian. Poteva essere tornata. Per un momento rimasi fermo davanti alla porta, poi, stringendo i denti, mi feci forza ed entrai. La stanza illuminata era vuota. Incominciai a rovistare tra i libri sparsi per terra, davanti alla finestra; a un tratto mi avvicinai all’armadio e lo chiusi. Non sopportavo la vista di quel vuoto fra le tute. Il testo che cercavo non si trovava lì. Mi misi allora a spostare metodicamente tutti i libri, un volume alla volta, fino a che non lo scovai nell’ultimo gruppo, una pila tra il letto e l’armadio. Nutrivo la speranza di scoprire qualche indizio, e in realtà c’era un segnalibro tra le pagine dell’indice dei nomi, dove, a matita rossa, era sottolineato un nominativo che non mi diceva niente: André Berton. Aveva due diversi rinvii. Guardai al primo riferimento e seppi che Berton era il pilota di riserva della nave di Shannahan. La notizia successiva su di lui si trovava circa cento pagine più avanti. Subito dopo l’atterraggio, la spedizione si era mossa con estrema prudenza; ma dopo sedici giorni, visto che l’oceano plasmatico non solo non dava segni di aggressività ma si ritirava davanti a ogni oggetto che si avvicinasse e, per quanto poteva, cercava di evitare il contatto diretto con le apparecchiature e gli uomini, Shannahan e il suo assistente Timolis tralasciarono alcune misure regolamentari di sicurezza che intralciavano o rallentavano i lavori. La spedizione si suddivise in piccoli gruppi, di due o tre persone, ognuno dei quali volava talvolta per alcune centinaia di chilometri sull’oceano; gli schermi radianti, che erano stati piazzati a difesa del terreno di lavoro, furono riportati in deposito alla base. I primi quattro giorni dopo questo cambiamento di metodo trascorsero senza incidenti, a parte alcuni inconvenienti agli autorespiratori a ossigeno delle tute spaziali, le cui valvole risultarono sensibili all’azione corrosiva dell’atmosfera tossica, e perciò si rese necessario cambiarle ogni giorno. Il quinto giorno, ventunesimo dall’atterraggio, due scienziati, Carucci e Fechner (il primo un radiobiologo, l’altro un fisico), partirono in volo di ricognizione sull’oceano con un piccolo veicolo a due posti. Non era un aeromobile: scivolava su un cuscino d’aria. Poiché dopo sei ore non erano ancora tornati, Timolis, che dirigeva la base in assenza di Shannahan, diede l’allarme e mandò tutti gli uomini disponibili a cercarli. Quel giorno, per fatale coincidenza, il collegamento radio si interruppe circa un’ora dopo la partenza dei gruppi di ricognizione; ne fu causa un’immensa macchia rossa sul sole, che bombardava di fortissime radiazioni corpuscolari gli strati superficiali dell’atmosfera. Funzionavano solo gli apparecchi a onde ultracorte, che permettevano di comunicare a una distanza massima di una trentina di chilometri. A peggiorare le cose, prima del tramonto del sole, la nebbia si infittì a tal punto che le ricerche dovettero essere sospese. Mentre i gruppi di salvataggio tornavano alla base, uno di loro avvistò il veicolo a centoventi chilometri dalla costa. Il motore funzionava ancora e l’apparecchio, che non appariva danneggiato, si sollevava sulle onde. Nella cabina trasparente c’era solo una persona, un uomo semisvenuto. Era Carucci. L’aeromobile fu trasportato alla base e Carucci ricevette le debite cure mediche; la sera stessa riprese conoscenza. Non ricordava niente di quel che era accaduto se non che, proprio quando avevano deciso di tornare, si era sentito soffocare. La valvola del suo apparecchio si bloccava dopo ogni aspirazione e una piccola quantità di gas tossico penetrava ogni volta all’interno. Fechner, nel tentativo di riparare l’apparecchio di Carucci, aveva dovuto slacciare le cinture e alzarsi. Era l’ultima cosa che Carucci ricordasse. Questo il presumibile svolgimento dei fatti, secondo la ricostruzione degli esperti: per riparare l’apparecchio di Carucci, Fechner doveva avere aperto il tetto della cabina, poiché i movimenti gli erano impediti dalla cupola molto bassa. Era ammissibile, poiché la cabina di questi apparecchi non è stagna e serve solo come riparo dagli agenti atmosferici e dal vento. Durante tali manovre doveva essersi prodotta un’avaria nell’apparecchio di Fechner, che, in stato confusionale, era probabilmente uscito dall’abitacolo attraverso l’apertura della cupola, arrampicandosi sulla fusoliera, e quindi era caduto nell’oceano. Questa è la storia della prima vittima. La ricerca del corpo — che avrebbe dovuto galleggiare sulle onde, dentro la tuta — non diede alcun risultato. Forse era rimasto davvero a galla, ma trovarlo in mille chilometri quadrati di quel deserto ondeggiante, costantemente coperto da strati di nebbia era un’impresa che superava le possibilità della spedizione. Prima del tramonto — torno ai fatti precedenti — tutti gli apparecchi di salvataggio erano rientrati, eccetto il più grande, l’elicottero per il trasporto merce con il quale era uscito in volo Berton. Si presentò alla base quasi un’ora dopo il tramonto, quando già si pensava seriamente che fosse perduto. Berton scese in evidente stato di shock; uscì dall’apparecchio da solo, e poi cominciò a correre qua e là; quando lo trattennero, prese a gridare e piangere. Una cosa stupefacente per un uomo che aveva alle spalle diciassette anni di navigazione spaziale, a volte in condizioni difficilissime. I medici supposero che fosse rimasto intossicato dall’atmosfera del pianeta. Due giorni dopo parve che Berton avesse ritrovato un apparente equilibrio: non voleva però lasciare, nemmeno per un attimo, l’interno del razzo principale della spedizione, né avvicinarsi a un portello dal quale si vedesse l’oceano; dichiarò solo che voleva dettare un rapporto sul suo volo. Insisteva, dicendo che era un fatto della massima importanza. Questo rapporto, dopo essere stato esaminato dal consiglio della spedizione, fu giudicato frutto di un cervello colpito da intossicazione da gas atmosferici, e che non riguardasse il pianeta, ma il decorso della malattia di Berton. La faccenda terminò lì. Questo diceva l’Appendice. Era lecito pensare che il nocciolo della questione si potesse trovare nel rapporto stesso di Berton: che cosa aveva portato al collasso nervoso quel pilota, veterano di numerosi voli spaziali? Tornai a rovistare fra i libri, ma non riuscii a trovare il Piccolo apocrifo. Ero sempre più stanco; rimandai le ricerche al giorno successivo e lasciai la cabina. Nel passare accanto alla scaletta di alluminio notai per terra delle chiazze di luce che provenivano dall’alto. Segno che Sartorius stava lavorando ancora. Pensai che avrei dovuto vederlo. Al piano superiore faceva un po’ più caldo. Nell’ampio e basso corridoio si sentiva una lieve corrente d’aria, le striscioline di carta sventolavano sopra le bocche del condizionatore. Una grossa lastra di vetro smerigliato, tenuta da un telaio metallico, costituiva la porta dell’ingresso principale del laboratorio centrale. Dall’interno il vetro era coperto con qualcosa di scuro; la luce filtrava solo dagli spiragli piccoli e stretti sotto il soffitto. Spinsi la maniglia. Come prevedevo, la porta non cedette. All’interno regnava il silenzio, si udiva solo, ogni tanto, un rumore simile al fischio sommesso di un becco a gas. Bussai: nessuna risposta. — Sartorius! — chiamai. — Dottor Sartorius! Sono io, Kelvin, quello nuovo! Devo vederla. Per favore, mi apra la porta! Si sentì un leggerissimo fruscio, come se qualcuno camminasse sulla carta, e di nuovo silenzio. — Sono io, Kelvin! Avrà sentito parlare di me! Sono arrivato a bordo del Prometheus qualche ora fa! — gridai, avvicinando le labbra al punto dove la porta toccava lo stipite metallico. — Dottor Sartorius! Qua non c’è nessuno, ci sono solo io! Mi apra. Ancora silenzio. Poi un lieve fruscio. Qualche tintinnio molto chiaro, come se una persona mettesse in ordine utensili metallici su un vassoio di ferro. Rimasi impietrito di colpo; dall’interno mi giungeva una serie di passi, come il camminare di un bambino: era un rapido, tenue passo di piccoli piedi. O… o qualcuno lo imitava abbastanza bene, tamburellando abilmente con le dita sopra una scatola vuota, risonante. — Dottor Sartorius! — gridai. — Mi apre o no? Nessuna risposta, e di nuovo quel trotterellio infantile e, contemporaneamente, qualche passo svelto di uomo, ma in punta di piedi… Ma, se camminava, come poteva imitare un passo infantile? «D’altronde» pensai, incapace di dominare più a lungo la rabbia che cominciava a invadermi «che me ne importa!» Ed esplosi. — Dottor Sartorius! Non ho volato sedici mesi per fermarmi di fronte alle vostre commedie! Conto fino a dieci. Poi faccio saltare la porta! Ne dubitavo. La reazione a getto della pistola a gas non è molto potente, ma ero deciso a mettere in atto la mia minaccia, in un modo o nell’altro, anche a costo di andare a cercare un paio di cariche esplosive, che certamente non mancavano nei magazzini. Mi dissi che non potevo concedermi il lusso di arrendermi, cioè che non potevo continuare a giocare una partita di pazzi, con le carte truccate che la situazione mi aveva messo in mano. Si sentì un rumore come se qualcuno lottasse o spingesse qualcosa; la tenda centrale si scostò forse di mezzo metro, un’ombra snella cadde sulla lastra opaca, come coperta di brina, e una voce leggermente rauca parlò: — Aprirò; ma lei deve promettermi che non entrerà. — E allora perché apre? — gridai. — Le verrò incontro. — Bene. Prometto. Si udì il leggero scatto della chiave girata nella serratura, poi una figura scura, che copriva metà porta, chiuse attentamente la tendina, di nuovo si svolsero alcune manovre strane; udii uno stridore, come se venisse spostato un armadietto di legno, finalmente la lastra chiara si aprì di quel tanto che bastava a far sgusciare Sartorius nel corridoio. Si piazzò davanti alla porta, coprendola con la sua persona. Era sproporzionatamente alto e magro. Sotto la maglia color crema il suo corpo sembrava fatto di sole ossa. Aveva al collo un fazzoletto nero; dalle spalle gli penzolava il camice protettivo da laboratorio, bruciato dai reagenti. Teneva piegata da una parte la testa straordinariamente stretta. Gli occhiali scuri gli coprivano quasi mezza faccia, così che non potevo vedere i suoi occhi. Aveva la mandibola lunga, le labbra livide e grandissime orecchie azzurrastre, come se fossero state congelate. Non era rasato. Dai polsi pendeva un paio di guanti rossi di gomma antiradiazioni, appesi ai lacci. Rimanemmo un po’ a guardarci reciprocamente con non celata avversione. I suoi radi capelli (sembrava che se li fosse tagliati da sé, con la macchinetta, a spazzola) erano color piombo; il pelo della barba era completamente bianco. La fronte era abbronzata, come quella di Snaut; ma l’abbronzatura finiva a metà altezza, come una linea di livello. Probabilmente usava sempre un cappello per stare al sole. — Ascolto — disse infine. Mi sembrò che non gli importasse molto di quel che avevo da dirgli, ma, viceversa, che spiasse con molta ansia ciò che aveva lasciato dietro di sé, restando con la schiena appoggiata alla lastra di vetro. Per un attimo non seppi come rispondere, per non dire una stupidaggine. — Mi chiamo Kelvin… dovrebbe avere già sentito il mio nome. Sono, voglio dire… sono stato l’assistente di Gibarian. Il suo volto magro, tutto coperto di rughe, era privo di espressione. Sembrava quello di don Chisciotte. Avevo difficoltà a parlargli a causa degli occhiali scuri che indossava. — Ho saputo che Gibarian… è morto. — La mia voce restò sospesa. — Sì, l’ascolto… — disse impaziente. — E’ stato un suicidio? Chi ha trovato il suo corpo, lei o Snaut? — Perché per questo lei si rivolge a me? Il dottor Snaut non le ha spiegato…? — Volevo sapere che cosa lei avesse da dirmi… — Lei è uno psicologo, dottor Kelvin? — Sì, perché? — Scienziato? — Sì. Ma a che proposito… — Avrei detto che lei fosse un funzionario o un agente della polizia criminale. Adesso sono le due e quaranta, e lei, invece di cercare di inserirsi nel lavoro che si svolge alla stazione, non contento dei modi brutali con i quali ha cercato di introdursi nel mio laboratorio, mi interroga come se fossi un individuo sospetto. Mi dominai con uno sforzo che mi fece sprizzare il sudore sulla fronte. — Lei è sospetto, Sartorius! — dissi con voce soffocata. Volevo colpirlo a tutti i costi, perciò aggiunsi, rapido: — E lo sa perfettamente. — Se lei non mi presenta immediatamente le sue scuse e non ritira ciò che ha detto, faccio un rapporto radio, Kelvin! — Perché dovrei chiederle scusa? Per il fatto che, invece di ricevermi, e di farmi entrare, e spiegarmi quel che succede, lei si chiude barricandosi nel laboratorio? Ma lei ha forse perso completamente il cervello? Chi è lei, insomma! Uno scienziato o un povero vigliacco? Me lo dica, è in grado di rispondermi? Non sapevo nemmeno che cosa stessi gridando. Lui non si mosse. La pelle pallida e piena di pori era imperlata di grosse gocce di sudore. Di colpo mi resi conto che non mi ascoltava affatto, non mi aveva sentito. Nascondeva entrambe le mani dietro di sé e, con tutte le sue forze, tratteneva la porta: questa vibrava leggermente, come se qualcuno facesse forza dall’interno. — Se… ne… vada… — disse con voce bizzarra, stridula. — Per l’amor di Dio… se ne vada! Scenda sotto, verrò, farò tutto quello che vuole, ma se ne vada! La sua voce esprimeva chiaramente un tale tormento che io, del tutto sbalordito, feci meccanicamente l’atto di alzare la mano per aiutarlo a trattenere la porta, poiché si vedeva che stentava a farlo; ma proprio allora lanciò un urlo orrendo, neanche gli avessi puntato addosso un coltello. Cominciai a retrocedere, mentre lui continuava a urlare in falsetto: — Va’ via, va’ via — e poi ancora: — Ritorno! Ritorno! Torno subito! No, no! Scostò la porta e si lanciò dentro; mi parve di vedere che all’altezza del suo petto passasse rapidamente una cosa dorata, come un disco brillante; dal laboratorio mi giunse un rumore sordo, la tenda si scostò da un lato, un’ombra alta si profilò sullo schermo di vetro, la tenda tornò al suo posto e non si vide più niente. Che cosa succedeva, là dentro? Si udirono dei passi, una corsa pazza che si concluse con un terribile fracasso di vetri infranti; sentii un suono, come di un bambino che ride a crepapelle… Mi tremavano le gambe; mi guardai intorno. Era sceso il silenzio. Sedetti sul davanzale in plastica della finestra. Rimasi lì per una quindicina di minuti, aspettando qualcosa, non so, forse ero arrivato alla disperazione, e per questo non volevo muovermi. La testa mi scoppiava. Sopra di me udii un cigolio prolungato e contemporaneamente la luce nell’ambiente divenne più intensa. Dal mio posto vedevo solo una parte del corridoio che correva tutt’intorno al laboratorio. Questo ambiente si trovava nella parte superiore della stazione, all’interno dello scudo dell’involucro; perciò le pareti risultavano concave e inclinate, con finestre simili a feritoie, a una distanza di qualche metro l’una dall’altra; le serrande a saracinesca si erano alzate, la giornata del sole azzurro giungeva alla fine. Uno splendore accecante entrava dagli spessi vetri. In ogni listello di nichel, in ogni maniglia, brillava un piccolo sole. La porta di accesso al laboratorio — quella enorme lastra di vetro — ardeva come un braciere. Guardai le mie mani appoggiate sulle ginocchia, grigie in quella luce spettrale. Nella destra tenevo la pistola a gas; non mi ero accorto di averla estratta dalla fondina. La rimisi al suo posto. Sapevo che non mi sarebbe bastata nemmeno una pistola a raggi gamma; che cosa avrei potuto fare? Distruggere la porta? Invadere il laboratorio? Mi alzai. Sprofondando nell’oceano, simile a un’esplosione all’idrogeno, il disco mi rinviò un fascio di raggi paralleli quasi tangibile; quando raggiunsero la mia guancia (scendevo giù per la scaletta) fu come la bruciatura di un ferro rovente. A metà scala ci ripensai e tornai su. Controllai tutt’intorno al laboratorio. Come ho detto, il corridoio lo circondava: dopo cento passi, mi trovai davanti a un’altra porta di vetro simile a quella di prima. Non provai ad aprirla, sapevo che era chiusa. Cercavo qualche finestrino nella parete in plastica, qualche fessura; il pensiero di spiare Sartorius non mi sembrava affatto ignobile. Volevo smetterla con le supposizioni e conoscere la verità, ma non riuscivo a figurarmi come fare. Mi venne in mente che il laboratorio era illuminato dai portellini posti sul soffitto, ciò significava che si aprivano nella corazza superiore; se fossi riuscito a raggiungere l’esterno, avrei potuto guardare dentro. Per fare questo dovevo scendere al piano inferiore per prendere la tuta e l’autorespiratore a ossigeno. Mi ero fermato davanti alla scala, rimuginando se ne valesse la pena. Era molto probabile che i portellini fossero chiusi con vetri opachi, ma che altro mi rimaneva da tentare? Scesi al piano di mezzo. Dovetti passare davanti alla cabina radio. La porta era spalancata. Snaut stava ancora come l’avevo lasciato, nella poltrona. Dormiva. Udendo i miei passi si mosse e aprì gli occhi. — Salve, Kelvin! — disse con voce arrochita. Rimasi zitto. — Sei riuscito a sapere qualcosa? — domandò. — Sì — risposi tranquillamente. — Non è solo. Fece una smorfia. — Ma guarda! E’ già qualcosa. Ha ospiti, dici? — Non capisco perché non volete parlarmi. Poiché sono destinato a rimanere qua, prima o poi verrò a saperlo — dissi quasi involontariamente. — E allora, perché tutti questi misteri? — Lo capirai quando avrai degli ospiti — mi disse. Sembrava che non gradisse la mia presenza e non avesse voglia di chiacchierare. — Dove vai? — chiese, quando mi mossi. Non risposi. La rimessa dell’aeroporto era nelle identiche condizioni in cui l’avevo lasciata. La mia capsula bruciacchiata era ancora ritta lì, soprelevata e vuota. Mi avvicinai al ripostiglio delle tute spaziali e di colpo mi passò la voglia di quella scappatella sulla superficie della corazza. Girai sui tacchi e, per una scaletta a chiocciola, scesi nei depositi. L’angusto corridoio era pieno di bombole e di casse impilate. Le pareti nude, metalliche, mandavano un riflesso azzurro livido. Ancora qualche decina di passi e vidi sotto la volta le tubature dell’impianto di congelamento coperte di brina bianca. Le seguii. Andavano a finire in un manicotto con un grosso collare di protezione, e attraverso di esso passavano in un locale a chiusura ermetica. Quando aprii la porta, che aveva guarnizioni di gomma larghe due palmi, m’investì un gelo che mi penetrò fin nelle ossa. Rabbrividii. Dal groviglio delle serpentine coperte di brina pendevano i ghiaccioli. E anche qui c’erano casse e contenitori, velati da uno strato gelato; gli scaffali lungo le paratie erano pieni di scatolame e di grasso in cubi gialli avvolti in plastica trasparente. Di fronte, sul fondo, la volta a botte si abbassava. Lì era appesa una tenda di stoffa pesante, che luccicava per gli aghi di ghiaccio che vi si erano formati. Ne scostai un lembo. Su un lettino a rete d’alluminio giaceva, coperta da un tessuto grigio, una forma oblunga. Alzai un orlo del telo e vidi il volto cereo di Gibarian. I capelli, neri con una ciocca bianca, aderivano lisci al cranio. La laringe sporgeva e sembrava sul punto di bucare la gola. Gli occhi spenti guardavano fissi la volta, all’angolo di una palpebra si era formato un ghiacciolo opaco. Il freddo che mi avvolgeva mi faceva tremare a tal punto che dovevo fare un enorme sforzo per non battere i denti. Senza lasciare la coperta, con l’altra mano toccai la sua guancia. Era come toccare un legno secco. La pelle era ruvida, irta di peli corti. Una piega che esprimeva un’infinita e sprezzante pazienza era congelata sulle sue labbra. Nel lasciar ricadere l’orlo del tessuto, vidi che da sotto le pieghe sporgevano delle perle o fave nere e allungate, in ordine di grandezza decrescente. Mi irrigidii di colpo. Erano dita di piedi scalzi, che vedevo dalla parte della pianta; i polpastrelli ovali erano lievemente divaricati. Sotto il lembo rigonfio del sudario c’era la donna nera, appiattita contro il corpo del morto. Sembrava riposare bocconi, come immersa nel sonno. Centimetro per centimetro scostai il grosso tessuto. La testa ricoperta di capelli crespi, intrecciati a ciuffetti, era appoggiata sul braccio nero. La pelle lucida della schiena era tirata sulle vertebre della spina dorsale. Nessun movimento animava quel corpo immenso. Ancora una volta guardai la pianta dei suoi piedi e mi colpì una stranezza: non si erano appiattiti sotto il gran peso che dovevano sopportare, non si erano incalliti con il camminare scalzi, la pelle che li copriva era fine come quella della schiena e delle mani. Dominai un fremito e mi piegai per toccarli; ma ciò mi risultò più difficile che toccare il cadavere. Quando vi appoggiai la punta delle dita accadde un fatto incredibile; il corpo, a una temperatura ambiente di 20 gradi sotto zero, era vivo, e si mosse. Ritirò la gamba come potrebbe fare un cane che dorme, quando lo si prende per una zampa. «Qui gelerà» pensai; ma il corpo era calmo e non freddo; avevo ancora sulla punta delle dita la sensazione di morbidezza della sua pelle. Arretrai fin oltre la tenda, la lasciai ricadere e tornai nel corridoio. Il caldo che mi accolse mi sembrò infernale. Le scale mi ricondussero nella rimessa dell’aeroporto. Sedetti sopra un mucchio di paracadute arrotolati, chiusi nei loro anelli, e mi presi la testa tra le mani. Mi sentivo abbattuto. Non capivo quello che mi succedeva. Ero distrutto, i miei pensieri scivolavano verso un abisso, col pericolo di precipitarvi; ma la perdita della ragione o l’annientamento mi sembravano una grazia irraggiungibile e ineffabile. Non avevo bisogno di andare da Snaut o Sartorius, mi pareva che nessuno sarebbe riuscito a figurarsi ciò che avevo provato, visto, toccato con le mie stesse mani. L’unica via di scampo, l’unica spiegazione sembrava essere la diagnosi di follia. Dovevo essere impazzito subito dopo l’atterraggio. L’oceano si era impadronito del mio cervello, soffrivo di un’allucinazione dietro l’altra; se così era, non dovevo sprecare energie in vani tentativi di risolvere enigmi che non esistevano in realtà, ma chiedere soccorso medico, mandare per radio un S.O.S. al Prometheus o a un’altra nave. Accadde a questo punto l’impensato: l’idea che fossi pazzo mi calmò. Ora capivo perfettamente le parole di Snaut, sempre ammesso che Snaut esistesse realmente e che gli avessi parlato, poiché le allucinazioni potevano essere cominciate prima. Forse ero ancora a bordo del Prometheus, colpito all’improvviso da malattia mentale, e quel che avevo veduto era una creazione della mia mente turbata. In tal caso, cioè se ero malato, potevo curarmi, e ciò mi consentiva almeno una speranza di salvezza: una salvezza che non ero riuscito a trovare nei tentativi condotti nelle ore precedenti. Dovevo dunque eseguire una prova generale, un esperimento logico — experimentum crucis — che mi dimostrasse se veramente ero impazzito o vittima della mia fantasia, oppure se, per quanto assurde e improbabili, le mie esperienze erano reali. Mentre sedevo a rimuginare in preda a questi pensieri, osservavo il basamento della struttura portante della rimessa spaziale. Era un pilone d’acciaio che saliva dal pavimento, fasciato di lastre curve di un colore verde pallido. In alcuni punti la vernice era venuta via, sicuramente a causa dello sfregamento dei carrelli portarazzi che passavano da lì. Toccai l’acciaio, lo scaldai per un momento con la palma della mano. Picchiai l’orlo piatto del rinforzo. Era possibile che un’illusione raggiungesse un simile grado di realtà? Forse sì, mi risposi. In fin dei conti era il mio campo, lo conoscevo bene. Era possibile inventare un esperimento chiave? «No» mi dissi inizialmente «poiché il mio cervello malato (ammesso che sia realmente malato) produrrà sempre le immagini che io gli chiederò.» Non solo nella malattia, ma anche nel sogno più normale, capita di parlare con persone sconosciute, e facciamo domande alle quali questi esseri immaginari danno risposte che noi udiamo. Sebbene queste persone, in realtà, siano solo creazioni della nostra stessa attività psichica, personificazione effimera e pseudoindipendente di parti della nostra psiche, fino a quando non ci rispondono noi non sappiamo quali parole usciranno dalle loro labbra. Ma sono effettivamente parole preparate da una zona particolare del nostro cervello, e dovremmo già conoscerle nell’attimo stesso in cui le inventiamo per metterle sulle labbra dei personaggi fittizi. Qualsiasi cosa progettassi o attuassi, c’era sempre la possibilità che mi stessi comportando esattamente come accade nel sonno. Poiché sia Snaut sia Sartorius forse non esistevano in realtà, sarebbe stato del tutto inutile rivolgere a loro domande di alcun genere. Pensai che avrei potuto assumere qualche farmaco, forse una sostanza eccitante, per esempio il peyotl, o un preparato capace di provocare visioni e allucinazioni. Se anche sotto l’effetto di quelle sostanze si fossero ripetuti i fenomeni, avrei avuto la dimostrazione che erano reali e facevano materialmente parte dell’ambiente. Ma no, pensai poi, non sarebbe stato questo il corretto esperimento chiave, poiché sapevo come agiva la sostanza che avrei preso, e l’assumere il farmaco e i suoi stessi effetti sarebbero potuti essere frutto della mia immaginazione… Mi sembrava di essere ingabbiato in un circolo vizioso di pazzia e di non poterne uscire. Possiamo pensare solo col nostro cervello, non ci possiamo vedere dall’esterno per controllare i processi che si svolgono nel nostro corpo… di colpo mi venne un’idea, semplice ma efficace. Mi alzai di scatto dal mucchio dei paracadute e corsi verso la cabina radio. Era vuota. Diedi un’occhiata all’orologio elettrico sulla parete. Erano quasi le quattro di notte, la notte convenzionale all’interno della stazione; fuori splendeva l’alba rossa. Misi in funzione l’apparecchio radio per collegamenti a lunga distanza e, mentre aspettavo che si scaldassero le valvole, ancora una volta cercai di ripassare mentalmente con precisione ogni fase del particolare esperimento. Non ricordavo quale fosse il nominativo per la chiamata della stazione radio automatica del satellite in orbita attorno a Solaris, però lo trovai su una tabella appesa sopra il quadro di comando. Chiamai usando l’alfabeto Morse, e dopo otto minuti ebbi la risposta. Il satellite, o meglio il suo cervello elettronico, si annunciò con un segnale ritmico ripetuto. Chiesi allora che mi comunicasse ogni venti secondi i meridiani interstellari della galassia che tagliava nel girare intorno a Solaris, precisando fino alla quinta cifra decimale. Poi sedetti e aspettai la risposta. Arrivò dopo dieci minuti. Tolsi il nastro di carta su cui era impresso il risultato e lo misi nel cassetto (badando bene a non dargli nemmeno un’occhiata); presi dalla biblioteca le colossali mappe celesti, le tabelle di logaritmi, l’almanacco del movimento quotidiano dei satelliti, qualche manuale, dopo di che mi misi a cercare la risposta alla stessa domanda. Passai circa un’ora per risolvere le espressioni; non ricordavo quando era stata l’ultima volta in cui avevo fatto tali e tanti calcoli, credo fosse stato durante l’esame di astronomia pratica. Feci i conti sul calcolatore della stazione. Il mio ragionamento suonava in questo modo: riferendomi alle carte astronomiche, avrei dovuto ottenere cifre che non coincidevano esattamente con quelle che avevo ricevuto dal satellite. L’approssimazione era dovuta al fatto che il satellite era soggetto a complicatissime variazioni sotto l’influsso delle forze di gravità di Solaris, non solo per i due soli che si avvicendavano, ma anche per i cambiamenti locali di peso provocati dall’oceano. «Quando avrò le due colonne di cifre» pensavo «quella fornita dal satellite e quella calcolata teoricamente in base alla carta celeste, inserirò nei miei calcoli alcune correzioni; allora entrambi i gruppi di risultati dovrebbero coincidere fino alla quarta cifra decimale; la differenza si verificherà alla quinta, e sarà quella provocata dal movimento, non calcolato, dell’oceano. «Se queste cifre fornite dal satellite non fossero reali, ma solamente frutto della mia mente smarrita, allora non potrebbero coincidere con la seconda colonna di dati numerici. Il mio cervello» mi dicevo «è forse malato, ma non può essere capace — in nessuna condizione — di rivaleggiare, nel fare i conti, col grande calcolatore della stazione: occorrerebbero mesi di tempo. Quindi, se le cifre coincideranno… il grande calcolatore esisterà realmente, e io lo avrò usato, concretamente e non nel delirio.» Mi tremavano le mani mentre toglievo dal cassetto il nastro di carta radiotelegrafica e lo srotolavo accanto all’altro, più largo, proveniente dal calcolatore. Entrambe le file di cifre tornavano, come avevo previsto, fino al quarto decimale. Le variazioni avvenivano con il quinto. Ficcai tutte le carte nel cassetto. Così era, dunque. Il calcolatore esisteva indipendentemente da me. E ciò dimostrava la realtà dell’esistenza della stazione e di tutto quel che conteneva. Stavo già per richiudere il cassetto quando mi accorsi che era zeppo di fogli, coperti di calcoli febbrili. Li tirai fuori, e al primo sguardo capii che qualcun altro aveva fatto un esperimento simile al mio. Con questa sola differenza: che invece di chiedere al satellite i dati relativi ai meridiani, si era fatto dare la misurazione dell’albedo di Solaris a intervalli di quaranta secondi. Non ero pazzo. L’ultima speranza si dileguava. Spensi il trasmettitore, bevvi il resto del brodo contenuto nel thermos e andai a dormire. 5. HAREY Il muto accanimento nel fare i calcoli mi aveva tenuto sveglio. Adesso, completamente spossato dalla stanchezza, non ero più neanche capace di tirar giù il letto rialzabile; invece di sganciare i fermi superiori, mi appesi alla maniglia, col risultato che il letto mi venne addosso di colpo. Riuscito infine ad abbassarlo e sistemarlo, buttai vestiti e biancheria appallottolati sul pavimento e mi lasciai cadere semisvenuto sul cuscino; non l’avevo nemmeno gonfiato bene. Mi addormentai, senza accorgermene, con la luce accesa. Nell’aprire gli occhi, ebbi l’impressione di avere dormito appena pochi minuti. La stanza era immersa in un tenue bagliore rossastro. Ero fresco e mi sentivo bene. Stavo sdraiato nudo e senza coperte. Di fronte a me, la tenda era scostata fino a metà, sulla finestra, e nella luce del sole rosso era seduto qualcuno. Era Harey, in un vestito bianco da spiaggia; teneva le gambe accavallate, aveva i piedi scalzi, i capelli neri pettinati all’indietro, e il tessuto dell’abito leggero si tendeva sui suoi seni. Lasciando penzolare le braccia abbronzate fino al gomito, mi guardava fisso, di sotto le lunghe ciglia. La contemplai a lungo, tranquillo. Il mio pensiero fu: «Com’è bello un sogno così, quando si sa di sognare». Ma avrei preferito che svanisse. Chiusi gli occhi, augurandomelo intensamente, ma quando li riaprii era seduta davanti a me come prima. Teneva, come suo solito, le labbra socchiuse, quasi fosse in procinto di mettersi a fischiettare, ma lo sguardo era senza sorriso. Rammentai tutte le mie elucubrazioni a proposito dei sogni, prima di addormentarmi. Era tale quale l’avevo veduta per l’ultima volta. Aveva solo diciannove anni in quel momento, adesso ne avrebbe avuti ventinove, ma non era cambiata per niente… i morti rimangono giovani. Aveva gli occhi che mi interrogavano. «Adesso» pensai «le lancio addosso qualcosa»; ma, sebbene fosse solo un sogno, non potei risolvermi — neanche nel sonno — a buttare qualcosa contro una morta. — Povera piccola — dissi — sei venuta a farmi una visita, vero? M’impaurii. Il suono della mia voce era così autentico, la stanza e Harey, tutto pareva assolutamente vero. «Che sogno realistico, non solo, ma anche a colori, e sul pavimento vedo oggetti di cui ieri sera non mi sono accorto. Quando mi sveglierò» pensai, «dovrò controllare se ci sono veramente o se sono soltanto una fantasia del sogno come Harey…» — Hai intenzione di stare a lungo seduta così? — domandai, e mi accorsi che avevo parlato piano, come per timore che qualcuno udisse… già, quasi fosse possibile che qualcuno potesse spiarmi nel sogno! Il sole, intanto, era spuntato. Be’, meno male, buon segno anche quello. Mi ero coricato col sole rosso, dopo il quale veniva il giorno azzurro e poi ancora quello rosso. Poiché non potevo certo avere dormito per quindici ore di fila, era certamente un sogno. Rassicurato, guardai bene Harey. Era in controluce, attraverso una fessura della tenda un raggio le illuminava la pelle vellutata della guancia sinistra e proiettava sul suo viso l’ombra delle ciglia. Era bellissima. «Ma guarda» mi dissi «come sono minuzioso, pur essendo fuori della realtà: controllo anche il movimento del sole, e, in più, quella fossetta che lei ha sotto gli angoli delle labbra.» Però era meglio che tutto finisse presto, dovevo pur riprendere a lavorare. Chiusi le palpebre, cercando di svegliarmi, poi di colpo udii uno scricchiolio. Immediatamente aprii gli occhi. Si era seduta sul letto accanto a me e mi guardava, seria. Le sorrisi e lei mi sorrise, si chinò sopra di me; il primo bacio fu delicatissimo, come se fossimo due bambini. La baciai a lungo. «Si può mai vivere un sogno fino a questo punto?» pensavo. Ma non tradivo il suo ricordo, poiché sognavo di lei, solo di lei. Non mi era mai capitato… Continuavamo a rimanere in silenzio. Restavo supino. Quando rialzò il viso, scorsi, sul lato illuminato dal sole, quella sua macchiolina della pelle che era un barometro dei suoi sentimenti; con la punta delle dita le sfiorai i lobi delle orecchie, arrossati per i miei baci, e non so se fu per questo che cominciai a essere inquieto; continuavo a ripetermi che era un sogno, ma provavo una stretta al cuore. Feci per saltare fuori dal letto; ero preparato all’insuccesso, poiché nel sonno, molto spesso, non si riesce ad avere il controllo sul proprio corpo, che è come assente; contavo però che quel tentativo mi strappasse dal sonno. Comunque, non mi svegliai; mi sedetti, con i piedi posati sul pavimento. «Niente da fare, devo smettere di sognare» mi dissi; ma il mio buon umore era svanito senza lasciare traccia. Avevo paura. — Che cosa vuoi? — domandai. La mia voce era rauca e dovetti schiarirmi la gola. Cercai meccanicamente, con i piedi nudi, le pantofole e, prima di ricordarmi che non le avevo, urtai l’alluce così malamente che imprecai. «Oh, adesso finirà!» pensai con soddisfazione. Ma non accadde niente. Harey, quando mi ero alzato a sedere, si era scostata. Ora si appoggiava con la schiena sul letto. Il vestito palpitava delicatamente sotto il seno sinistro, al battito del cuore. Lei mi guardava con interesse, pacificamente. Pensai che era meglio fare una doccia; ma mi venne in mente che una doccia fatta in sogno non può svegliare. — Da dove arrivi? — chiesi. Sollevò la mia mano e, con un gesto che mi era familiare, si mise a battere contro di essa; mi prendeva sotto i polpastrelli e premeva. — Non lo so — mi disse. E aggiunse: — E’ sbagliato? Anche la voce era la stessa, bassa, con un accento un po’ assente. Harey aveva sempre parlato così, non badando alle parole che usava, come se avesse già in mente un’altra cosa; dava l’impressione di essere distratta e talvolta sfacciata, perché guardava tutti con quel blando stupore che adesso le si leggeva negli occhi. — Chi… qualcuno ti ha vista? — Non lo so. Sono arrivata, semplicemente. E’ importante, Chris? Continuava a giocherellare con la mia mano, ma il viso non vi prendeva parte. Era imbronciato. — Harey… — Che cosa, caro? — Come hai fatto a sapere dov’ero? Ciò la fece riflettere. Quasi non si notava (aveva le labbra scure come se avesse mangiato amarene) che il sorriso le lasciava scoperti leggermente i denti. — Non ne ho idea. E’ buffo, no? Dormivi, quando sono entrata, e non ti ho svegliato. Non volevo svegliarti, perché sei un collerico e un noioso. Collerico e noioso… Dicendo queste parole mi sollevò energicamente la mano. — Sei stata di sotto? — Ci sono stata. Sono scappata da lì perché faceva freddo. Lasciò andare il mio braccio e, sdraiandosi di fianco, gettò la testa indietro per mandare tutti i capelli da una parte; mi guardava con quel mezzo sorriso che aveva smesso di irritarmi quando avevo cominciato ad amarla. — Ma… Harey… ma… — balbettai. Mi chinai su di lei e alzai la manica corta del suo vestito. Sotto la rosetta della cicatrice della vaccinazione antivaiolosa c’era il rosso di un piccolo segno che pareva provocato da una iniezione. Nonostante me lo aspettassi (poiché istintivamente cercavo vestigia di logica nell’irrealtà), mi venne la nausea. Toccai col dito quel segno di puntura, lo stesso che vedevo in sogno da anni, e che mi faceva svegliare urlando fra le lenzuola sfatte, sempre nella stessa posizione, piegato quasi in due come era sdraiata lei quando l’avevo trovata, quasi fredda. Nei miei sogni cercavo di fare quel che aveva fatto lei, come se volessi chiedere perdono alla sua memoria o accompagnarla negli ultimi minuti, quando aveva già sentito l’effetto dell’iniezione e cominciava ad avere paura. Harey aveva sempre avuto paura di ferirsi anche minimamente, non poteva sopportare il dolore e nemmeno la vista del sangue, ma di colpo aveva fatto quella cosa orribile, lasciandomi cinque parole su un foglietto. L’avevo tra le mie carte, lo portavo sempre con me, ormai gualcito e logoro lungo le piegature, senza avere mai avuto il coraggio di separarmene. Mille volte ero tornato a quel momento, quando lei lo aveva scritto, e a ciò che aveva potuto provare in quegli istanti. Cercavo di persuadermi che avesse voluto solo spaventarmi, ma che la dose fosse risultata — per caso — troppo forte. Tutti avevano cercato di convincermi che era stata una decisione repentina, provocata da una depressione improvvisa. Non sapevano quel che le avevo detto, cinque giorni prima, quando per ferirla e addolorarla mi ero portato via la mia roba, e lei, mentre facevo le valigie, mi aveva risposto, tranquillamente: «Sai cosa significa…?». Avevo fatto finta di non capire; ma la credevo vile e anche questo gliel’avevo detto… e adesso era sdraiata nel letto e mi guardava attentamente, come se non sapesse che io l’avevo uccisa. — Non sei capace d’altro? — domandò. La stanza era arrossata dal sole, nei suoi capelli ardeva l’alba; lei si guardò il braccio, che era diventato importante perché io l’avevo osservato a lungo; quando abbassai la mano, lei vi posò la guancia liscia. — Harey — dissi con voce rauca — non può essere… — Piantala! Aveva gli occhi chiusi, vedevo il loro movimento sotto le palpebre, le lunghe ciglia nere toccavano le guance. — Dove siamo, Harey? — Da noi. — Dove? I suoi occhi si aprirono un attimo e si chiusero di nuovo. Le sue ciglia mi accarezzarono la mano. — Chris? — Cosa? — Sto bene. Ero seduto, curvo sopra di lei, e non mi muovevo. Alzai la testa e vidi riflessi nello specchio sopra il lavandino i capelli di Harey spettinati e le mie ginocchia nude. Attirai col piede uno di quegli utensili a metà fusi che erano sparsi sul pavimento e lo sollevai con la mano libera. La punta era affilata. L’appoggiai sulla pelle, là dove avevo una cicatrice rotonda e rossa, e lo conficcai nella carne. Il dolore era fastidioso. Guardai il sangue che stillava a grandi gocce sulla superficie esterna della coscia e cadeva lentamente sul pavimento. Era inutile. Ogni volta i pensieri atroci che mi passavano per la mente diventavano più espliciti. Da tempo non mi dicevo più: «E’ un sogno», non lo credevo più. Pensavo solo: «Devo difendermi». Guardai la sua schiena che traspariva dal vestito bianco, la forma dei suoi fianchi, i suoi piedi scalzi penzolanti sopra il pavimento. Mi chinai, toccai leggermente la caviglia rosea, passai la mano sotto la pianta del piede. Era delicata come quella di un neonato. Seppi allora con certezza che non era Harey, e che quasi sicuramente lei stessa non lo sapeva. Il piede scalzo si mosse sotto le mani, le labbra scure di Harey ridevano senza far rumore. — Piantala… — disse piano. Liberai dolcemente la mano e mi alzai. Ero ancora nudo. Mentre mi vestivo in fretta, vidi che si era seduta sul letto. Mi guardava. — Dov’è la tua roba? — domandai, e mi pentii subito. — La mia roba? — Ma hai solo questo vestito? Ormai era un gioco. Mi comportavo apposta con noncuranza, con naturalezza, come se ci fossimo lasciati il giorno prima, no, come se non ci fossimo mai lasciati. Si alzò e con una leggera mossa diede un colpo alla gonna per lisciarla. Le mie parole l’avevano interessata, ma non disse nulla. Per la prima volta diede uno sguardo concreto all’ambiente, come cercando qualcosa, poi riportò gli occhi su di me, visibilmente stupita. — Non so… — mi disse vaga. — Forse nell’armadio…? — aggiunse, e socchiuse la porta. — No, lì ci sono solo le tute — risposi. Trovai di fianco al lavandino il rasoio elettrico e cominciai a farmi la barba. Preferivo non voltare le spalle a quella ragazza, chiunque fosse. Camminava su e giù per la cabina, guardando in tutti gli angoli, e fuori dalla finestra; alla fine mi si avvicinò e disse: — Chris, ho l’impressione che sia successo qualcosa… S’interruppe. Aspettai, col rasoio in mano. — E’ come se avessi scordato… è come se avessi scordato quasi tutto. Solo… ricordo te… E… e niente di più. L’ascoltavo cercando di dominare la mia espressione. — Sono… stata ammalata? — No… ma si potrebbe dire così. Sì, per un certo tempo sei stata un po’ ammalata. — Ah. Dev’essere per questo. Cominciò a rasserenarsi. Non so descrivere ciò che passai. Quando stava zitta, e camminava, e si sedeva, e sorrideva, ero convinto di avere davanti a me Harey. A farmi girare la testa era qualcosa di più forte della paura. Una Harey semplificata, limitata alle sue caratteristiche nei gesti e nelle risposte. Mi si avvicinò, mise i pugni sotto il mento e mi domandò: — Come andiamo? Bene o male? — Nel migliore dei modi. Sorrise impercettibilmente. — Se lo dici così, direi che va male. — Ma no, Harey carissima. Adesso devo uscire — dissi rapidamente. — Mi aspetterai, vero? Forse… hai fame — aggiunsi, poiché a un tratto sentivo anch’io crescere la fame. — Fame? No. Scosse la testa, e i capelli ondeggiarono. — Devo aspettarti? Per molto? — Un’oretta… — cominciai, ma m’interruppe. — Vengo con te. Era un’altra Harey: quella che conoscevo non era mai stata così invadente. — Piccola, non è possibile. Mi guardava dal basso e mi prese la mano. La toccai dal braccio alla spalla, il suo braccio era pieno e caldo, una carezza non intenzionale. Il mio corpo si riconosceva nel suo, lo desideravo, mi attraeva fino alla follia, al di là delle incertezze e della paura. Cercando a tutti i costi di tranquillizzarla, ripetei: — Harey, è impossibile: devi rimanere. — No. Come risuonò nella cabina quella parola! — Perché? — N… non lo so. Si guardò attorno e di nuovo alzò gli occhi. — Non posso… — disse quasi sottovoce. — Ma, perché? — Non lo so. Non posso. Mi sembra che… mi sembra che… Chiaramente, cercava una risposta. Quando la trovò, fu per lei quasi una scoperta. — Mi sembra… che io non debba smettere di vederti. L’intonazione concreta tolse alle parole ogni sentimento di fedeltà. Sotto questa impressione, il mio abbraccio cambiò… anche se apparentemente non lo mostrai. Era rigida tra le mie mani; fissandola negli occhi, cominciai a piegarle le braccia all’indietro. Questo movimento, sebbene non premeditato, aveva uno scopo. Cercavo con gli occhi qualcosa con cui legarla. I suoi gomiti si toccarono e, contemporaneamente, si tesero con tale forza che annullarono la mia presa. Lottai per un secondo. Nemmeno un’atleta, piegata all’indietro come era Harey, toccando appena con i piedi il pavimento, sarebbe riuscita a liberarsi; lei, però, con un’espressione del tutto indifferente, senza modificare il suo lieve sorriso un po’ insicuro, spezzò il mio abbraccio, si raddrizzò e abbassò le mani. I suoi occhi mi osservavano con la stessa tranquilla curiosità di prima, quando mi ero svegliato, come se non si fosse resa conto del mio disperato sforzo per immobilizzarla dettato da un accesso di paura. Era in piedi, inerte, sembrava che aspettasse qualcosa, indifferente e allo stesso tempo raccolta e leggermente stupita di tutto. Mi caddero le braccia. La lasciai in mezzo alla stanza e mi diressi verso il piano del lavandino. Sentivo di essere in trappola e ne cercavo l’uscita, pensando convulsamente cosa fare. Se qualcuno mi avesse chiesto che cosa mi succedeva, che cosa significasse tutto quello, non sarei riuscito a dire neppure una parola, però mi rendevo conto che era qualcosa che succedeva a tutti nella stazione, ed era insieme tremendo e incomprensibile; eppure mi ostinavo a cercare una via d’uscita. Anche se ero di spalle, sentivo lo sguardo di Harey. Sopra il ripiano, in una nicchia del muro, si trovava una cassetta di pronto soccorso. Vi guardai dentro rapidamente. Trovai un tubetto con dei sonniferi e buttai quattro pastiglie — la dose massima — nel bicchiere. Non cercavo di nascondere ad Harey quel che facevo. Mi era difficile dirne il perché. Non ci pensavo troppo. Versai nel bicchiere acqua calda, aspettai che si sciogliessero le pastiglie e mi avvicinai ad Harey che restava in mezzo alla stanza. — Sei arrabbiato? — domandò in un bisbiglio. — Bevi questo. Non saprei spiegarne il motivo, ma ero certo che mi avrebbe obbedito. Ed effettivamente prese il bicchiere dalle mie mani e ne bevve il contenuto. Appoggiai il bicchiere vuoto su un mobile e mi sedetti in un angolo tra l’armadio e la biblioteca. Harey mi si avvicinò lentamente, si accucciò per terra a fianco della poltrona, com’era solita fare, con le gambe sotto di sé, e, con un movimento a me ben noto, buttò i capelli all’indietro. Pur convinto che non fosse lei, ogni volta, riconoscendo questi particolari, qualcosa mi stringeva la gola. Era davvero una cosa incomprensibile e tremenda, e soprattutto terribile, per me, quel cercare di darle a intendere, contro la mia volontà, che la consideravo Harey, quando lei stessa, senza malizia, era convinta di esserlo. Non so come potevo essere arrivato a capirlo, ma ne ero sicuro, se di qualcosa si poteva essere sicuri… Ero seduto, la ragazza appoggiava la schiena contro le mie ginocchia, i suoi capelli solleticavano la mia mano immobile, stavamo in quella posizione senza muoverci. Di tanto in tanto guardavo l’orologio. Era passata mezz’ora. Il sonnifero ormai avrebbe dovuto fare effetto. Harey sussurrò adagio qualcosa. — Che cosa dici? — domandai, ma non mi rispose. Presi questo per un segno di sonnolenza incipiente, sebbene, quant’è vero Dio, nel fondo della mia anima dubitassi che il barbiturico facesse effetto. Perché? A questa domanda non trovavo risposta, sicuramente perché il mio ragionamento era fin troppo semplice. Pian piano la sua testa scivolò dalle mie ginocchia mentre i capelli neri le coprirono il viso; respirava regolarmente, come una persona addormentata. Mi chinai per adagiarla sul letto. Di colpo, senza aprire gli occhi, mi afferrò i capelli con la mano e scoppiò a ridere. Rimasi paralizzato mentre lei rideva a più non posso. Gli occhi socchiusi, mi guardava con un’aria tra l’ingenuo e il furbo. Ero seduto in una posizione rigida, non naturale, intontito e smarrito. Harey rise ancora, avvicinò la sua faccia alla mia mano e rimase in silenzio. — Perché ridi? — domandai con voce severa. Un’espressione ferma e riflessiva apparve sul suo volto. Vedevo che voleva essere sincera. Si toccò il naso con un dito e disse sospirando: — Non lo so. — Mi sembrava sorpresa. — Mi comporto come un’idiota, vero? — continuò. — Ma mi viene spontaneo… Anche tu, però: te ne stai seduto lì, borioso come… Pelvis… — Cosa? — domandai, credendo di avere udito male. — Come Pelvis, sai, quello grasso… Ora, fuor di ogni dubbio, Harey non poteva conoscere Pelvis, e nemmeno averne sentito parlare da me, per il semplice fatto che era tornato dalla sua spedizione tre anni dopo il suicidio. Anch’io non l’avevo conosciuto fino a quell’epoca e tanto meno sapevo che, quando presiedeva le riunioni dell’Istituto, aveva l’abitudine inveterata di prolungarle all’infinito. Si chiamava Pelle Villis, e da questo era nato il nomignolo, che mi era però sconosciuto prima del suo ritorno. Harey appoggiò i gomiti sulle mie ginocchia e mi guardò in faccia. Le posai le mani sulle spalle e risalii fino ad arrivare all’attaccatura del collo. Poteva credere che fosse una carezza, e dai suoi occhi si poteva pensare che non immaginasse altro. In realtà mi convinsi che il suo corpo, sotto il mio semplice contatto, era caldo e umano, e che sotto i muscoli si celavano ossa e articolazioni. Guardandola dritto negli occhi tranquilli mi venne un’orrenda voglia di stringere le dita con forza. Stavo quasi per farlo, quando mi tornarono in mente le mani insanguinate di Snaut e la lasciai. — Come mi guardi… — mi disse con calma. Il mio cuore batteva così forte che non fui in grado di replicare. Abbassai per un momento le palpebre. Di colpo articolai un piano d’azione, minuzioso, con tutti i particolari. Non volendo perdere tempo, mi alzai dalla poltrona. — Harey, devo andarmene — dissi. — Se veramente vuoi, vieni con me. — Bene. Si alzò di colpo. — Perché sei scalza? — domandai, avvicinandomi all’armadio e scegliendo due tute colorate, una per me e una per lei. — Non lo so… devo aver perso le scarpe da qualche parte… — disse incerta. Finsi di non avere udito. — Sopra il tuo vestito non riuscirai a metterti questo. Devi togliertelo. — La tuta…? E per che cosa? — chiese, cercando di togliersi il vestito. Ma succedeva una cosa strana: era impossibile sfilarlo, non aveva abbottonatura. I bottoni rossi, sul davanti, erano solo decorativi. Mancava qualsiasi tipo di chiusura, cerniera lampo o altro. Harey sorrideva impacciata. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, raccattai dal pavimento una specie di scalpello e tagliai il tessuto partendo dalla scollatura. Così riuscì a togliersi l’abito dalla testa. La tuta le stava un po’ grande. — Dobbiamo volare…? Anche tu? — mi domandò mentre entrambi, già vestiti, lasciavamo la stanza. Annuii con la testa. Avevo una paura tremenda di incontrare Snaut, ma il corridoio che andava verso il vano di arrivo era vuoto e la porta della cabina radio era chiusa. Nella stazione spaziale perdurava un cupo silenzio. Harey stette a guardare mentre, con un piccolo carrello elettrico, indirizzavo il razzo dal box di mezzo a un binario libero. Controllai, in successione, lo stato del microreattore, dei telecomandi dei diffusori, dopo di che, tolta la capsula ancora posata sulla piattaforma concava di lancio, sotto la volta a imbuto, spinsi sulla rampa il carrello col missile. Era una navicella utilizzata per i viaggi tra la stazione e il satellite; soprattutto per il trasporto di merci o persone in casi eccezionali, poiché non si poteva aprirla dall’interno. Questo faceva parte del mio piano. Non pensavo certo di lanciare il piccolo missile, ma cercavo di farglielo credere, come se veramente mi stessi preparando a una partenza: Harey, che mi aveva accompagnato in parecchi viaggi, se ne intendeva un pochino. Controllai ancora una volta, all’interno della navicella, lo stato dell’apparecchio per l’ossigeno e il condizionatore; quando le luci di controllo si accesero, dopo aver inserito i circuiti automatici, uscii dal piccolo guscio e lo indicai ad Harey, che si trovava ai piedi della scaletta. — Entra. — E tu? — Entrerò dopo di te, devo avvitare il portello dietro di noi. Non mi sembrava che potesse scoprire il mio tranello. Quando entrò attraverso la scaletta, affacciai la testa nell’apertura e chiesi se riusciva a sistemarsi comodamente; quando sentii il suo «sì», soffocato nel piccolo spazio, retrocessi e chiusi con forza il portello. Con due mosse tirai le leve; con la chiave già pronta mi accinsi a serrare le cinque viti di sicurezza. Quella specie di sigaro a punta era posizionato in verticale come se da un momento all’altro dovesse essere lanciato nello spazio. Sapevo che, chiusa lì dentro, non le sarebbe successo niente; nel missile c’era ossigeno a sufficienza e anche viveri. Non avevo affatto l’intenzione di lasciarla prigioniera per sempre, ma volevo a tutti i costi avere almeno un paio d’ore di libertà per elaborare qualche progetto, per parlare finalmente con Snaut in condizioni di parità. Mentre stringevo l’ultima vite, sentii che la struttura metallica, sulla quale il razzo era posato su tre punti, vibrava leggermente. Pensai di essere io a farla dondolare, lavorando con quelle enormi chiavi. Quando mi allontanai di qualche passo, vidi una cosa a cui spero di non assistere mai più. Tutto il razzo vibrava, sussultava sotto una serie di colpi che sembravano sferrati dall’interno: e che colpi! Se, invece di una bruna fanciulla magrolina, avessi chiuso nel razzo un automa d’acciaio, sicuramente non sarebbe riuscito a scuotere in modo altrettanto violento quelle otto tonnellate di materiale. La luce dell’aeroporto assumeva riflessi cangianti per le vibrazioni della superficie levigata. Non udivo il rumore dei colpi, all’interno del missile c’era un assoluto silenzio, ma i montanti dell’ossatura metallica che lo sosteneva si deformavano vibrando come corde. La frequenza dei sussulti era tale da farmi temere per l’intera ossatura. Strinsi l’ultima vite con mani tremanti e, gettata lontano la chiave, saltai giù dalla scaletta. Allontanandomi, vidi che i supporti degli ammortizzatori, progettati per resistere a una pressione continua, ballavano nei loro zoccoli. Mi sembrò che l’involucro corazzato perdesse la sua compattezza. Come un pazzo corsi verso il quadro dei telecomandi, con tutt’e due le mani spinsi in alto la leva che attivava il reattore e le comunicazioni; all’istante, dall’altoparlante collegato con l’interno del razzo uscì un clamore lacerante: non un sibilo, non un fischio, e nemmeno pareva una voce umana, ma riuscii ugualmente a distinguere nell’urlo l’invocazione ripetuta: — Chris! Chris! Chris! Non udivo molto chiaramente. Mi colava il sangue dalle dita, contuse nei movimenti disordinati e violenti compiuti per maneggiare i comandi. Uno splendore azzurro, come un’alba livida, illuminò le pareti; sotto il foro del disco di lancio si levò una nube di polvere che si trasformò in un fascio di scintille e tutti i rumori furono coperti da un ruggito ininterrotto. Il razzo, sollevandosi su tre vampe che subito si unirono in una colonna unica, partì attraverso la pista di lancio aperta, lasciando dietro di sé una scia infuocata che ricadeva mollemente. Le saracinesche si chiusero subito, e automaticamente si misero in azione i compressori che cominciarono a pulire l’aria della rimessa dal fumo soffocante che vi regnava. Non mi rendevo conto di tutto quello che era successo. Appoggiato al quadro dei comandi, con la faccia ustionata dal fuoco vivo, con i capelli bruciacchiati e arricciati dallo sbalzo termico, cercavo, ansando, di respirare l’aria, acre per il fumo e pregna della caratteristica puzza di ozono della ionizzazione. Nonostante avessi chiuso istintivamente gli occhi al momento del lancio, il bagliore della fiammata li aveva colpiti. Per un po’ di tempo vidi tutto nero e rosso con dei cerchi gialli, che poco a poco sparirono. La polvere e la nebbia svanirono aspirati dai canali di ventilazione che funzionavano rumorosamente. La prima cosa che riuscii a scorgere fu lo schermo del radar che brillava di un colore verde. Cominciai a cercare il razzo, manovrando con l’indicatore. Quando finalmente lo raggiunsi, era già uscito dall’atmosfera. Non ho mai eseguito il lancio di un missile in modo così pazzo in vita mia, alla cieca, senza curarmi di quale accelerazione dargli e di dove dirigerlo. Pensai che la cosa più semplice fosse introdurlo nell’orbita circolare attorno a Solaris, più o meno all’altezza di mille chilometri, dove avrei avuto la possibilità di spegnere i propulsori, dei quali ignoravo la portata; se avessero continuato a funzionare, si sarebbero potute verificare conseguenze catastrofiche. L’orbita dei mille chilometri — come avevo rilevato dalla tabella — era stabile. Ma anche questo, per dire la verità, non garantiva niente. Non avevo più il coraggio di accendere il microfono, che avevo disattivato subito dopo il lancio. Ero pronto a tutto pur di non sentire ancora quella orrenda voce, che non aveva più nulla di umano. Una cosa credevo di poter dire: che avevo sconfitto l’apparenza fallace, e che al volto modellato su quello di Harey si sostituiva il suo vero volto; se così non fosse accaduto, l’alternativa della pazzia sarebbe stata veramente una liberazione. Quando lasciai l’aeroporto, era l’una. 6. IL «PICCOLO APOCRIFO» Avevo la pelle ustionata sulle mani e sulla faccia. Mi ricordai che, quando avevo cercato il sonnifero per Harey (ora scoppierei a ridere, se potessi, della mia ingenuità), avevo scorto nell’armadio del pronto soccorso un vasetto di crema per le scottature. Perciò tornai nella mia camera. Aprii la porta e nella luce del tramonto rosso vidi che, nella poltrona davanti alla quale era stata inginocchiata Harey, era seduto qualcuno. La paura mi paralizzò; fu un panico che mi spingeva a retrocedere, correre, fuggire, ma durò una frazione di secondo. La persona alzò la testa. Era Snaut. Lo vedevo di spalle con le gambe accavallate (portava ancora quei pantaloni di tela bucati dai reagenti) e guardava certi fogli. Ce n’era tutto un fascio sopra il tavolo. Vedendomi li rimise a posto e per un momento mi guardò, cupo, da sopra gli occhiali, spinti sulla punta del naso. Senza una parola, andai al lavandino, presi dall’armadietto la crema semiliquida e cominciai a spalmarla sui punti più bruciati della fronte e delle guance. Per fortuna non ero molto tumefatto; gli occhi, per averli chiusi tempestivamente, erano rimasti illesi. Sulle tempie e sulla mascella si erano formate delle vesciche; le bucai con un ago sterilizzato da iniezione e feci uscire il liquido sieroso. Poi applicai due pezzi di garza leggermente inumidita. Per tutto il tempo Snaut continuò a guardarmi. Lo ignorai. Quando finalmente portai a termine questi trattamenti (avevo la faccia che mi bruciava sempre di più), sedetti sull’altra poltrona, dopo avere spostato il vestito di Harey. Era un vestito comunissimo, a parte il fatto che non aveva chiusura. Snaut, con le mani incrociate sopra le ginocchia aguzze, mi osservava critico. — Allora, ci facciamo una chiacchierata? — mi disse quando sedetti. Non risposi, tenendo premuti i pezzi di garza che tendevano a scivolare sulla guancia. — Abbiamo avuto visite, eh? — Sì — risposi seccamente. Non avevo nessuna voglia di dargli retta, su quel tono. — E siamo riusciti a sbarazzarcene? Be’, si può dire che tu vai per le spicce. Continuava a toccarsi la fronte, che si squamava lasciando apparire le chiazze di pelle rosea dell’epidermide nuova. Lo guardavo sbalordito. Come mai l’abbronzatura di Snaut e Sartorius, fino a quel momento, non mi aveva dato da pensare? Per tutto quel tempo avevo creduto che fosse effetto di un colpo di sole: ma nessuno si abbronza, su Solaris… — Spero che, per cominciare, avrai proceduto con senno — mi disse, senza pensare che avevo potuto avere un’improvvisa illuminazione. — Narcotico, veleno, lotta libera o che? — Che cosa vuoi? Possiamo essere schietti. Se hai voglia di fare il buffone, è meglio che tu te ne vada. — Certe volte si è buffoni senza averne voglia — mi disse. Alzò gli occhi per scrutarmi. — Non mi dirai che hai usato la corda o il martello? Non avrai buttato il calamaio come Lutero, no? Eh! — fece una smorfia. — Sei un eroe! Non hai staccato il lavandino, non hai tentato di spaccarti la testa contro il muro, niente, non hai demolito la stanza, ma semplicemente e subito, detto e fatto, hai imballato, spedito, e via! Guardò l’orologio. — Dovremo avere due o tre ore libere, adesso — concluse. Mi guardava, con un sorriso antipatico. Riprese: — Su. Mi giudichi un maiale? — Un porco fatto e finito — sottolineai. — Sì? Tu mi avresti creduto, se te l’avessi detto? Avresti creduto una sola parola? Non replicai. — E’ capitato a Gibarian per primo — continuò, sempre con un ghigno. — Si chiuse nella sua cabina, e parlava soltanto attraverso la porta, e noi, puoi figurarti come l’abbiamo giudicato. Sapevo, ma preferivo stare in silenzio. — E’ chiaro. L’abbiamo considerato un pazzo. Ci disse qualcosa attraverso la porta, ma non tutto. Ti puoi immaginare il perché, per quale motivo nascondeva chi c’era da lui? Be’, sai: suum cuique. Ma era un vero studioso. Ci ha chiesto di concedergli una possibilità. — Quale? — Sperimentava, suppongo, cercava di classificare la cosa, arrivare a un ordine, risolvere. Lavorava di notte. Sai che cosa faceva? Sì, probabilmente lo sai! — Quei calcoli — dissi. — Nel cassetto. Nella cabina radio. E’ stato lui? — Sì, ma allora non sapevo ancora niente di tutto questo. — Quanto è durato? — La visita? Circa una settimana… Le discussioni attraverso la porta. Ma che cosa succedeva! Pensavamo che avesse allucinazioni, disturbi del comportamento. Gli ho dato la scopolamina. — Come… a lui?! — Eh, sì. La prendeva; ma non per sé. Sperimentava. Così andò avanti. — E voi…? — Noi, il terzo giorno, decidemmo di raggiungerlo, anche a costo di buttare giù la porta. Sinceramente, volevamo curarlo. — Ah! E’ per questo! — mi scappò detto. — Sì. — E allora… nell’armadio… — Sì, ragazzo mio. Sì, non sapeva che intanto alcuni ospiti erano venuti a trovarci. Non abbiamo più potuto occuparci di lui. Non lo sapeva, ma adesso… è una cosa normale, è una routine. — Lo disse talmente a bassa voce che indovinai l’ultima parola più che udirla. — Aspetta, non capisco — dissi. — Ma come, dovevate sentire. Avevi detto che continuavate a sorvegliarlo. Dovevate sentire due voci, e allora… — No. Solo la sua voce, anche se c’erano altri rumori incomprensibili. Capirai, pensavamo che fossero tutti suoi… — Solo la sua…? Ma… come mai? — Non lo so. Veramente ho una certa teoria su questo argomento. Ma penso che non valga la pena di essere precipitosi, tanto più che chiarire certe cose non aiuta per niente. Già. Ma tu devi avere visto qualcosa ieri, altrimenti ci avresti preso per due matti. — Pensavo di essere impazzito io. — Ah, sì? E non hai visto nessuno? — Eh, sì, che ho visto. — Ma chi? La sua smorfia non era più un sorrisetto. Lo guardai a lungo prima di rispondere: — Quella… nera… Non mi rispose, ma tutto il suo corpo, che era piegato in avanti, si distese leggermente. — Potevi avvisarmi — incominciai, con minore convinzione. — Ti avevo avvertito. — In che modo, però! — Nell’unico possibile. Cerca di capirmi, non sapevo chi sarebbe venuto! Nessuno lo sapeva, non si può saperlo… — Senti, Snaut, qualche domanda. Tu che conosci la cosa da un po’ di tempo. Con quello… quella… che cosa succederà? — Mi chiedi se tornerà? — Sì. — Torna, e non torna. — Che significa? — Tornerà come era… come durante la prima visita. Semplicemente, non saprà niente; o meglio, sarà come se tutto ciò che hai fatto per toglierla di mezzo non fosse accaduto. Se non provochi una certa situazione, non sarà aggressiva. — Quale situazione? — Dipende dalla circostanza. — Snaut! — Cosa vuoi? — Non possiamo permetterci il lusso di fare dei misteri! — Non è un lusso — mi interruppe seccamente. — Kelvin, ho l’impressione che tu non capisca, o… aspetta! Gli brillarono gli occhi. — Mi puoi dire chi è stato qui? Deglutii. Abbassai la testa. Non volevo guardarlo. Avrei preferito che fosse qualcun altro, non lui. Non avevo scelta. Il pezzo di garza si staccò e mi cadde nella mano. Rabbrividii nel sentire quella cosa scivolosa. — La donna… che… — m’interruppi. — Si uccise. Si fece… si iniettò… Aspettava. — Suicidio? — domandò, vedendo che tacevo. — Sì. — Tutto qui? Continuavo a stare in silenzio. — Non può essere tutto… Alzai rapidamente la testa. Non aveva lo sguardo su di me. — Come lo sai? Non mi rispose. — Bene — dissi. Mi inumidii le labbra. — Avevamo litigato. Veramente no. Sono stato io a dirle… sai, ciò che si dice quando si è arrabbiati. Presi le valigie e me ne andai; mi fece capire, non dicendomelo direttamente, ma quando si convive da tempo con qualcuno non è necessario… Ero sicuro che l’aveva detto tanto per dire, che avrebbe avuto paura di farlo… e non glielo nascosi. Il giorno dopo, ricordai di avere lasciato in un cassetto… le iniezioni; sapeva che c’erano, le avevo portate dal laboratorio, ne avevo bisogno. Le avevo spiegato come funzionavano. Ebbi paura e volevo tornare a prenderle, ma poi pensai che così avrei avuto l’aria di avere preso sul serio le sue parole e… lasciai stare la cosa, ma il terzo giorno ci andai, perché non mi davo pace. Quando arrivai, non era più viva. — Ah, ragazzaccio innocente… — mi fece sussultare. Ma, quando lo guardai, capii che non mi stava prendendo in giro. Lo osservai come se fosse la prima volta. Aveva la faccia grigia, la stanchezza era evidente nei solchi profondi sulle guance. Aveva l’aria di un uomo molto malato. — Perché parli così? — domandai, stranamente intimorito. — Perché questa storia è così tragica. No, no — aggiunse rapidamente vedendo che mi ero mosso, — continui a non capire. Di certo, forse soffri, forse credi di essere un assassino; ma… c’è di peggio. — Ma guarda! — dissi ironicamente. — Sono contento che tu non mi creda. Le cose accadute possono essere tremende, ma più tragico è ciò che… non è accaduto, mai. — Non capisco… — dissi confuso. Davvero non capivo niente. Annuii con la testa. — Un uomo normale — disse. — Che vuoi dire, un uomo normale? E’ quello che non ha mai commesso niente di abominevole? Sì: ma non ha mai pensato di farlo? Forse no, ma qualcosa ha pensato in lui. Si è immaginato qualcosa, dieci o trenta anni fa; forse se ne è difeso e l’ha dimenticato e non ne ha più avuto paura, poiché sapeva che non l’avrebbe mai fatto. Sì, e adesso immaginati che, di colpo, un certo giorno, tra altra gente, egli trovi questa COSA, incarnata, attaccata a lui, indistruttibile, e allora…? Che cos’hai, allora? Rimasi in silenzio. — La stazione — disse a bassa voce. — Allora, hai la stazione Solaris. — Ma… insomma, che cosa può essere? — dissi titubante. — Non sei un delinquente, e nemmeno Sartorius lo è… — E tu saresti uno psicologo, Kelvin! — mi interruppe con impazienza. — Chi non ha mai fatto un sogno simile? Immaginazione? Pensa a un feticista che si innamora di un pezzo di biancheria sporca, che rischiando la pelle conquista il suo caro e orrendo straccio. L’oggetto della sua attenzione gli fa schifo, ma contemporaneamente darebbe la vita per averlo. I suoi sentimenti possono essere pari a quelli di Romeo e Giulietta. Simili cose capitano, vero? Puoi dunque capire che devono esistere delle cose, delle situazioni… tali che nessuno ha mai avuto il coraggio di realizzarle, al di fuori della propria mente, in un momento di follia, di aberrazione, di pazzia, chiamala come vuoi. Dopo di ciò, il verbo s’incarna. Ecco tutto. — Ecco… tutto — ripetei stupidamente, con voce atona. La mia testa rimbombava. — Ma la stazione, come c’entra? — Tu fingi — brontolò. Mi guardava attentamente. — Io sto parlando di Solaris, sempre e solo di Solaris, e di nient’altro! Non è colpa mia se la realtà è così brutalmente diversa dalle tue aspettative. Credo che tu ne abbia passate già abbastanza per ascoltarmi sino alla fine. «Noi partiamo per lo spazio preparati a tutto, cioè pronti al sacrificio, alla solitudine, alla lotta, alla morte. Per modestia, non lo diciamo ad alta voce, ma lo pensiamo dentro di noi di tanto in tanto; pensiamo di essere eccezionali. Intanto, però, non è tutto, il nostro zelo si rivela una posa. Non abbiamo nessuna voglia di conquistare il cosmo, noi vogliamo soltanto allargare fino ai suoi ultimi confini le frontiere della Terra. Certi pianeti devono essere deserti come il Sahara, altri freddi e ghiacciati come il Polo o tropicali come la giungla del Brasile. Siamo umanitari e nobili, non abbiamo intenzione di conquistare altre razze, vogliamo solo trasmettere i nostri valori e in cambio impadronirci del loro patrimonio. Ci crediamo cavalieri dell’ordine del Santo Contatto. Questa è una bugia. Noi cerchiamo solo l’uomo. Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi. Non sappiamo che cosa farcene di altri mondi. Uno ci basta, quello in cui sguazziamo. Vogliamo trovare il ritratto idealizzato del nostro mondo! Cerchiamo dei pianeti con una civiltà migliore della nostra… ma che sia l’immagine evoluta di quel prototipo che è il nostro passato primordiale. Dall’altro lato, c’è in noi qualcosa che non accettiamo, contro cui lottiamo; ma che comunque resta, perché dalla Terra non abbiamo portato un distillato di virtù o una statua alata dell’uomo! Siamo arrivati qua così come siamo realmente, e quando l’altra faccia, cioè la parte che manteniamo segreta, si mostra com’è veramente… non riusciamo ad andarci d’accordo!» — Allora, che cos’è? — domandai, dopo averlo ascoltato con pazienza. — Quel che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. L’abbiamo, questo contatto! Ingrandita come se fosse sotto il microscopio… la nostra mostruosa bruttezza, la nostra buffoneria e vergogna! — Nella sua voce vibrava la rabbia. — Allora credi che sia… l’oceano? Che sia lui? Ma a che scopo? Lasciamo da parte, per ora, la meccanica; ma «a che scopo»?! Per amor di Dio! Pensi seriamente che voglia giocare con noi? O che ci voglia punire? Allora si tratta veramente di una diavoleria primitiva? Il pianeta sarebbe dunque dominato da un grosso demone che per soddisfare il suo umore satanico rende succube l’equipaggio della spedizione scientifica?! Non crederai a simili idiozie! Questo diavolo non è per niente stupido — brontolò tra i denti. Lo guardai meravigliato. Mi venne in mente che, alla fine, poteva essere caduto in preda a una crisi psicotica, anche non volendo spiegare con la follia tutto ciò che accadeva all’interno della stazione. — Psicosi reattiva…? — mi scappò detto, e Snaut si mise a ridere piano. — Stai formulando la diagnosi? Vacci piano. In fondo hai avuto modo di conoscere solo la forma benigna, e non ne sai niente di più! — Ah. Il diavolo si è mostrato pietoso con me — sbottai. Quel colloquio cominciava ad annoiarmi. — Che cosa vorresti? Che ti dicessi quali piani vada architettando contro di noi questa massa di X miliardi di tonnellate di plasma metamorfico? Nessuno, forse. — Come, nessuno? — domandai impietrito. Snaut continuava a sorridere. — Dovresti saperlo, che la scienza si occupa soltanto di ciò che succede, non di ciò che non è ancora successo. Come? E’ accaduto otto o nove giorni dopo l’esperimento con i raggi X. Forse l’oceano ha risposto alla radiazione con un’altra radiazione, e così ha potuto sondare i nostri cervelli e impadronirsi di certe costellazioni psichiche. Questo ridestò il mio interesse. — Eh, sì. Dei processi isolati da tutto il resto, chiusi in sé, attutiti, murati, qualche scintilla della memoria. Li ha trattati come campioni e come piano di costruzione… lo sai come sono simili le catene molecolari asimmetriche dei cromosomi e le unità nucleiche dei cerebrosidi che compongono il sostrato dei processi di memorizzazione… Questo plasma ereditario è plasma che «ricorda». L’oceano ha prelevato questo, da noi, ne ha preso nota, poi tu sai che cos’è successo. Ma perché l’ha fatto? Be’! In ogni caso, non per distruggerci; sarebbe per lui troppo facile. Oltretutto, data la sua disinvoltura tecnologica, potrebbe fare qualsiasi cosa, per esempio metterci davanti dei sosia. — Ah! — esclamai. — Per questo ti sei preso uno spavento la prima sera, quando sono arrivato? — Sì. Forse — aggiunse — forse l’ha fatto. Come puoi sapere se sono veramente quel buon diavolo di Topo che venne qui due anni fa…? — Incominciò a ridere silenziosamente, come se la mia meraviglia gli desse chissà che soddisfazione, ma smise subito. — No, no — brontolò. — Ce n’è già abbastanza senza questo… Forse esistono altre caratteristiche inconfondibili, ma io ne conosco solo una: possiamo ucciderci, tu e io. — E loro no? — Non ti consiglio di provare. E’ uno spettacolo orrendo! — Non è proprio possibile? — Non lo so. A ogni modo, non con il veleno, con il coltello, con la corda… — E una pistola gamma? — Tu proveresti? — Chissà. Poiché non sono persone… — Ma lo sono, in un certo senso. Soggettivamente, sono persone. Non si rendono affatto conto della loro… origine. L’hai forse notato? — Sì. E allora com’è? — Si rigenerano a una velocità incredibile. Una velocità impossibile, ti dico. In un batter d’occhio. E ricominciano comportandosi come… come… — Come cosa? — Come ce li immaginiamo: queste note memorizzate secondo le quali… — Sì. E’ vero — convenni. Non badavo al fatto che la pomata mi scendeva dalle guance bruciate e gocciolava sulle mani. — Gibarian lo sapeva? — domandai improvvisamente. Mi guardò con attenzione. — Vuoi dire se sapeva quel che a nostra volta sappiamo? — Sì. — Quasi certamente. — Come lo sai? Te l’ha detto? — No, ma ho trovato da lui un certo libro. — Il Piccolo apocrifo! — dissi, balzando in piedi. — Sì. Come lo sai? — domandò con una certa inquietudine, guardandomi dritto negli occhi. Feci cenno di no con la testa. — Calma! — dissi. — Non vedi che sono tutto bruciacchiato e che «non» mi rigenero? Nella cabina c’era una lettera per me. — Davvero! E che cosa conteneva? — Poco. Era solo un appunto, non una lettera. Referenze bibliografiche alle Appendici solaristiche e a quell’Apocrifo. Che cos’è? — Un’anticaglia. Ma può avere una certa pertinenza. Prendi — estrasse di tasca un volumetto con gli angoli consumati, rilegato in pelle, e me lo porse. — E Sartorius? — dissi, prendendo il libro. — Cosa, Sartorius? Ognuno di noi, in questa situazione, si comporta come può. Lui cerca di essere normale. Che, nel suo caso, significa formalismo ufficiale. — Allora, sai! — Ma sì. Sono già stato con lui in una certa situazione, ti risparmio i particolari, ma per otto persone rimasero cinquecento chilogrammi di ossigeno. Uno dopo l’altro ci lasciavamo andare; soltanto lui si puliva le scarpe tutti i giorni e si faceva la barba. Naturalmente qualsiasi cosa faccia, adesso, può solo fingere, recitare una commedia o commettere un delitto. — Delitto? — Già, non proprio un delitto. Per definirlo ci occorre un termine nuovo di zecca. Per esempio, divorzio da rigetto. Suona meglio? — Sei incredibilmente spiritoso. — Preferiresti che piangessi? Proponi tu qualcosa. — Ah, lasciami in pace! — No, dico sul serio, adesso ne sai più o meno quanto me. Hai qualche piano? — Bel furbo! Non so che cosa farò, quando riapparirà… Ma è proprio certo che debba riapparire? — Direi di sì. — Ma come fanno a entrare, da dove passano? La stazione è chiusa ermeticamente. Forse la corazza… Negò col capo. — La corazza è in ordine. Non ho idea di come facciano. Solitamente gli ospiti sono lì al nostro risveglio. In fin dei conti, bisogna pur dormire, ogni tanto. — Forse barricandoci? — Non regge a lungo. No, c’è un mezzo solo, e quale sia, be’, lo sai. Si alzò e mi alzai anch’io. — Senti, Snaut… tu miri a liquidare la stazione; non solo, ma vorresti che la decisione venisse da me, vero? Scrollò il capo. — Non è così semplice. Naturalmente, possiamo scappare. Per esempio sul satellite, e di lì mandare un S.O.S. Ci tratteranno come dei mentecatti, beninteso. Dobbiamo aspettarci di essere rinchiusi in una clinica, sulla Terra, e di restarci un po’ di tempo: fino a quando non ci rimangiamo tutto. I casi di follia collettiva dell’equipaggio, in dislocazioni così isolate, non sono una novità. E forse non sarebbe la soluzione peggiore. Giardino, tranquillità, stanzette bianche, passeggiatine con le infermiere… Parlava seriamente, con le mani in tasca, fissando, senza vedere niente, un angolo della camera. Il sole rosso era scomparso dietro l’orizzonte e le creste delle onde erano svanite in un deserto colore d’inchiostro. Il cielo avvampava. Sopra questo paesaggio tetro e bicolore passavano nuvole lilla. — Allora, sei disposto a tagliare la corda oppure no? Non ancora? — sorrise. — Conquistatore incrollabile… Non hai ancora provato niente, altrimenti non terresti duro così. Non si tratta di quel che voglio o non voglio io, bensì di ciò che è possibile. — Che cosa? — Non lo so ancora. — Dunque, rimaniamo qui? Pensi che troveremo un mezzo… Mi studiava, col suo viso emaciato, segnato di rughe, che perdeva la pelle. — Chissà. Forse è meglio — disse infine. — Forse non verremo a sapere niente su di lui; ma, su di noi… Girò su se stesso, raccolse i suoi fogli e uscì. Avrei voluto fermarlo, ma dalla bocca aperta non mi uscì alcun suono. Non c’era niente da fare, potevo solo aspettare. Mi avvicinai alla finestra e fissai l’oceano rosso e nero, senza vederlo. Mi venne in mente di andare a rinchiudermi in uno dei razzi all’aeroporto, ma non lo pensai seriamente, era troppo stupido; prima o poi sarei dovuto uscire. Sedetti accanto alla finestra e tirai fuori il libro lasciatomi da Snaut. C’era ancora luce sufficiente, colorava di rosa le pagine, tutta la camera era arrossata. Si trattava di una raccolta di articoli e memorie di qualche valore, a cura di un tal Otto Ravintzer, laureato in filosofia. A ogni scienza non manca mai di affiancarsi una pseudoscienza che ispira strane distorsioni nelle menti di un certo tipo; l’astronomia ha nell’astrologia la sua caricatura, la chimica l’aveva nell’alchimia, ed era inevitabile che la nascita della solaristica fosse accompagnata da una vera alluvione di elucubrazioni aberranti. Ravintzer aveva alimentato il suo libro con questo tipo di nutrimento, facendolo precedere, è giusto dirlo, da una introduzione in cui si dissociava da quel panoptikon. Egli semplicemente considerava, non senza ragione, che una raccolta del genere potesse costituire un valido documento dei tempi per lo studioso sia di storia sia di psicologia. Il rapporto di Berton occupava nel volume un posto piuttosto ampio. Era composto di vari capitoli. Il primo era costituito da un estratto del libro di bordo dello stesso Berton, molto laconico. Dalle ore 14.00 alle 16.40, ora convenzionale della spedizione, le annotazioni erano scarne e negative. «Altezza 1000 (o 1200, o 800) metri, nessun avvistamento, oceano deserto.» Questo era ripetuto più e più volte. Poi, alle 16.40: «Si leva una nebbia rossastra. Visibilità 700 metri. Oceano deserto». Ore 17.00: «Nebbia più fitta, silenzio, visibilità 400 metri, con schiarite. Scendo a 200». Ore 17.20: «Sono nella nebbia. 200 di quota, visibilità 2440 metri, silenzio. Salgo a 400». Ore 17.45: «500 di quota, una fascia di nebbia fino all’orizzonte. Nella nebbia, delle aperture a imbuto, attraverso le quali si vede la superficie dell’oceano. Qualcosa succede. Cerco di entrare in uno di quei tubi». Ore 17.52: «Vedo una specie di gorgo. Espelle schiuma gialla. Sono circondato da un muro di nebbia. 100 di quota. Scendo a 20». Qui terminava l’estratto del libro di bordo di Berton. Il seguito di questo rapporto era la cronistoria della sua malattia, o meglio il testo delle sue deposizioni, dettate da Berton e interrotte dalle domande della commissione. BERTON: Quando sono sceso a trenta metri, è stato molto difficile mantenere la quota, poiché in questi spazi circolari senza nebbia soffiava parecchio vento. Ho dovuto concentrarmi sui comandi di guida e dunque, per un periodo di dieciquindici minuti, non ho potuto guardare fuori. Per questo motivo sono entrato involontariamente nella nebbia, un forte colpo di vento mi ci ha spinto. Non era una nebbia normale, era una materia colloidale in sospensione, direi, che mi ricoprì completamente i vetri e per pulirli penai molto. Era molto viscosa. Intanto i giri erano diminuiti del trenta per cento a causa della resistenza che l’elica incontrava, e cominciavo a perdere quota. Poiché ero molto basso e temevo di capottare sulle onde, ho dato gas. L’apparecchio non è risalito. Avevo ancora quattro razzi acceleratori. Non li ho usati pensando che la situazione poteva peggiorare ancora e che avrei potuto averne bisogno. A regime massimo si è prodotta una forte vibrazione; ho pensato che quella materia collosa si stesse appiccicando all’elica. Il contatore di rendimento era quasi a zero e non potevo farci nulla. Dal momento in cui ero entrato nella nebbia non vedevo più il sole, ma la sua direzione dava una fosforescenza rossa. Mi spostavo continuamente con la speranza di raggiungere uno di quegli spazi senza nebbia e, in capo a mezz’ora, ci sono riuscito. Sono entrato in uno spazio libero, quasi circolare, del diametro di qualche centinaio di metri. Le pareti di nebbia giravano vorticosamente, come per effetto di correnti ascendenti molto forti, perciò cercavo di tenermi nella zona centrale. L’aria in quel punto era più calma. Ho osservato allora un cambiamento sulla superficie dell’oceano. Erano scomparse quasi completamente le onde e il fluido di cui è composto l’oceano diventava quasi trasparente, con scie fumose; queste andavano dissolvendosi e in breve tutto si è schiarito. Potevo vedere fino a una profondità di venti metri. Lì si condensava un fango giallo, che saliva a filamenti; quando raggiungeva la superficie assumeva una lucentezza vitrea, cominciava a girare, a schiumare e ad addensarsi: somigliava molto a zucchero caramellato. Questo fango o liquido formava grumi, protuberanze sulla superficie dell’oceano, creando moltissime e stranissime forme. Cominciavo di nuovo a essere spinto contro la parete di nebbia, perciò ho dovuto per qualche minuto dare gas e governare. Quando ho potuto guardare nuovamente fuori, ho visto sotto di me qualcosa che assomigliava a un giardino. Sì, giardino. Ho visto alberelli nani, siepi e vialetti, irreali, e tutto ciò era fatto di quella sostanza che si era quasi solidificata in un gesso di colore giallo. Sono sceso quanto più potevo per vedere esattamente. DOMANDA: Gli alberi e le piante che hai visto avevano foglie? RISPOSTA DI BERTON: No. Era una forma sommaria, come fosse un modellino di giardino. Ecco, sì, un modellino. Così sembrava. Un modellino ma in grandezza naturale. Un istante dopo, tutto ha cominciato a rompersi e, attraverso fessure nere, sgorgava a fiotti sulla superficie quel liquido denso che in parte colava e in parte si solidificava. Tutto ha cominciato ad agitarsi energicamente, si è coperto di questa materia e, a parte ciò, non ho visto altro. Contemporaneamente la nebbia ha cominciato a schiacciarmi da ogni parte: perciò ho aumentato i giri e sono salito all’altezza di trecento metri. DOMANDA : Sei proprio sicuro che ciò che hai visto ti ricordava un giardino e nient’altro? RISPOSTA DI BERTON: Sì. Ho notato diversi particolari; ricordo, per esempio, che in un certo punto c’era come una fila di scatolette quadrate. Mi è venuto poi in mente che potevano essere alveari. DOMANDA: Ti è venuto in mente dopo? Ma non nel momento in cui le hai viste? RISPOSTA DI BERTON: No, no, perché tutto sembrava di gesso. E ho visto ancora altre cose. DOMANDA: Quali cose? RISPOSTA DI BERTON: Non posso dire quali, perché non riuscivo a vedere con precisione. Ho avuto l’impressione che, sotto alcune di quelle piante, ci fossero oggetti, come calchi in gesso dei nostri attrezzi da giardinaggio, di forme lunghe, con denti sporgenti. Ma di questo non sono molto sicuro. Dell’altro, sì. DOMANDA: Non hai pensato che fosse un’allucinazione? RISPOSTA DI BERTON: No, pensavo fosse un miraggio. Alle allucinazioni no, perché mi sentivo molto bene, e anche perché in vita mia non avevo mai visto niente di simile. Quando sono salito a trecento metri la nebbia sotto di me era tutta a buchi, come un formaggio. Da uno di questi buchi ho visto ondeggiare l’oceano. Negli altri qualcosa si muoveva. Sono sceso fino a uno di questi punti e all’altezza di quaranta metri ho visto, ma solo superficialmente, una parete. Era la parete di un enorme edificio e aveva delle aperture rettangolari in fila come finestre, sembrava che in qualcuna di esse si muovesse qualcosa; ma di questo non sono molto sicuro. La parete ha cominciato ad alzarsi e a emergere dall’oceano. Sopra di essa scivolavano a cascata quel liquido e delle forme mucose, come mucchi di vene. All’improvviso si è spaccato in due ed è crollato in fretta, scomparendo di colpo. Ho portato di nuovo in quota l’apparecchio, e volavo sopra la nebbia, quasi sfiorandola col mio carrello. Ho visto un altro imbuto: era parecchie volte più grande di quello che avevo osservato prima. Da lontano ho avvistato qualcosa di bianco che galleggiava, e ho subito pensato alla tuta di Fechner, tanto più che la forma ricordava quella di un essere umano. Ho fatto una virata molto brusca, perché temevo di oltrepassare il punto e di non ritrovarlo più; quella forma, o corpo, si muoveva leggermente, sembrava quasi che nuotasse o stesse in piedi fino alla cintola tra le onde. Avevo fretta e sono sceso talmente in basso che ho sentito il carrello urtare contro qualcosa di morbido; ho pensato che fosse la cresta di un’onda. Il corpo, che era proprio un corpo, non indossava la tuta, però si muoveva. DOMANDA: Hai visto la sua faccia? RISPOSTA DI BERTON: Sì. DOMANDA: Chi era? RISPOSTA DI BERTON: Era un bambino. DOMANDA: Che bambino? L’avevi mai visto prima? RISPOSTA DI BERTON : No, mai. Non ricordo di averlo mai visto. Del resto, quando mi sono avvicinato e tra me e lui c’è stata una distanza di quaranta metri, o forse anche meno, ho capito che qualcosa non quadrava. DOMANDA: Che cosa intendi dire? RISPOSTA DI BERTON : Mi spiego. Dapprima non ho capito di che cosa si trattasse. Solo dopo un momento me ne sono reso conto. Quel bambino era immensamente grande. Dire immenso è poco. Credo misurasse quattro metri. Ricordo che, nel momento in cui ho urtato contro l’onda, la sua faccia era all’altezza della mia e, seduto com’ero nell’abitacolo, dovevo trovarmi a tre metri sopra la superficie dell’oceano. DOMANDA : Se era così immenso, come hai capito che era un bambino? RISPOSTA DI BERTON : Perché era un bambino piccolissimo. DOMANDA : Non ti pare, Berton, che la tua risposta non sia logica? RISPOSTA DI BERTON : Assolutamente no. Ho visto la sua faccia, e le fattezze del suo corpo: erano infantili. Mi sembrava quasi un neonato. No, forse esagero: poteva avere due o tre anni. Aveva capelli neri e occhi azzurri, immensi! Ed era nudo, completamente nudo; come se fosse appena nato. Era bagnato, forse unto, la pelle gli brillava. La sua presenza mi ha fatto un’enorme impressione. Non credevo più che fosse un miraggio. Lo vedevo troppo chiaramente. Si alzava e ricadeva con il moto ondoso. Era orrendo! DOMANDA : Perché? Che cosa faceva? RISPOSTA DI BERTON: Sembrava come in un museo. Una bambola, ma viva. Apriva e chiudeva la bocca e faceva diversi movimenti. Orrendo. Sì, perché i suoi gesti non erano naturali. DOMANDA: Che cosa vuoi dire? RISPOSTA DI BERTON: Non mi sono avvicinato oltre i quindici o venti metri. Ma vi ho detto com’era grosso, perciò lo vedevo perfettamente. Gli brillavano gli occhi e pareva vivo; solo che quei movimenti erano come se qualcuno provasse… come se qualcuno riprovasse… DOMANDA: Cerca di esprimerti più chiaramente. RISPOSTA DI BERTON: Non lo so, non so se ne sarò capace. Ho avuto questa impressione. Era un’intuizione. Non ci riflettevo. Quei movimenti erano innaturali. DOMANDA: Vuoi dire che, per esempio, le braccia non si muovevano come quelle umane, che hanno determinate limitazioni di movimento a causa delle articolazioni? RISPOSTA DI BERTON: Assolutamente no. Solo che… quei movimenti non avevano alcun senso. Ogni movimento ha un suo significato, è funzionale a qualcosa… DOMANDA: Credi? I movimenti dei neonati non hanno senso. RISPOSTA DI BERTON: Lo so, ma i movimenti di un neonato sono disordinati e non coordinati. Generalizzati. Questi invece erano, posso dire… metodici. Sembravano fatti prima a gruppi e poi in serie. Come se qualcuno volesse controllare che cosa fosse in grado di fare, quel bambino, con le mani, con la schiena, con la bocca. La faccia era la cosa più difficile, penso, perché la faccia esprime di più. Ma quella faccia… non saprei descriverla. Era viva, sì; ma non era umana. I tratti, gli occhi, l’aspetto, sì, ma l’espressione non andava. DOMANDA: Faceva delle smorfie? Lo sai com’è la faccia di una persona durante un attacco epilettico? RISPOSTA DI BERTON: Sì, ho visto un attacco del genere. Lo capisco. Ma era qualcosa di diverso. Durante l’attacco epilettico ci sono contrazioni e tremiti, ma questi erano movimenti completamente sciolti e regolari; si può dire, armoniosi. Non riesco a definirli in altro modo. Con la faccia era lo stesso. Una faccia non può essere per metà triste e per metà allegra, con una parte atterrita e l’altra esultante o qualcosa del genere; ma in quel bambino succedeva così. Poi, tutti quei movimenti e il gioco mimico avvenivano a una velocità incredibile. Mi sono fermato poco, forse dieci secondi. Non so neanche se fossero dieci. DOMANDA: Vuoi dire che hai visto tutto questo nel giro di così poco tempo? Ma come sai quanto è durato? Hai controllato con l’orologio? RISPOSTA DI BERTON: No, non ho controllato con l’orologio, però volo da sedici anni. Nel mio lavoro si deve sapere valutare il tempo al secondo. Io ho in mente i tempi. E’ necessario per l’atterraggio. Il pilota che non è in grado di afferrare, indipendentemente dalle circostanze, se un fenomeno dura cinque secondi oppure dieci, non varrà mai un granché. Con gli anni, impariamo a recepire tutto in tempo brevissimo. DOMANDA: E’ tutto quello che hai visto? RISPOSTA DI BERTON: No, ma il resto non lo ricordo esattamente. Penso che sia anche troppo. Avevo il cervello come tappato. La nebbia cominciava a chiudersi intorno a me e ho dovuto riprendere quota. Devo averlo fatto, ma non ricordo né come né quando. Per la prima volta nella mia vita, quasi capottavo. Le mani mi tremavano talmente che non ero in grado di tenere i comandi. Mi sembra di avere gridato e chiamato la base, sebbene sapessi di non essere collegato. DOMANDA: Hai cercato di rientrare? RISPOSTA DI BERTON: No. Quando ho finalmente raggiunto la quota limite, ho pensato di poter trovare Fechner in uno di quei pozzi. Lo so che sembra senza senso. Ma lo pensavo. «Poiché già succedono cose strane» pensavo «forse riuscirò a trovare Fechner.» Perciò ho deciso di entrare in ogni pozzo in cui fosse possibile. La terza volta, quando sono risalito, ho capito, dopo ciò che avevo visto, che non sarei riuscito a scendere ancora. Non ho potuto. Devo dire che, come si sa, ho avuto delle nausee, ho vomitato nell’abitacolo. Era strano. Io non ho mai sofferto di nausee. DOMANDA: Era un sintomo di intossicazione, Berton. RISPOSTA DI BERTON: Forse. Ma ciò che ho visto quella terza volta non l’ho inventato. Non era conseguenza dell’intossicazione. DOMANDA: Come puoi saperlo? RISPOSTA DI BERTON: Non erano allucinazioni; l’allucinazione è una cosa creata dal nostro cervello, vero? DOMANDA: Sì. RISPOSTA DI BERTON: Ebbene, il mio cervello non poteva inventare quel che ho visto. Non lo crederò mai. Non ne sarebbe stato capace. DOMANDA: Di’ piuttosto che cos’era, per favore. RISPOSTA DI BERTON: Prima, vorrei sapere come sarà valutato ciò che ho già riferito. DOMANDA: Che importanza ha? RISPOSTA DI BERTON: Per me, un’importanza vitale. Vi ho riferito che ho visto delle cose che non dimenticherò mai. Se la commissione deciderà che ciò che ho detto è probabile, anche solo in minima parte, e che si dovranno cominciare delle ricerche in questo campo, a proposito dell’oceano, allora dirò tutto. Ma se la commissione riterrà che siano mie invenzioni, non dirò niente. DOMANDA: Perché? RISPOSTA DI BERTON: Perché il contenuto delle mie allucinazioni è una mia questione privata, e non ho da renderne conto. Delle mie osservazioni su Solaris, invece, sì. DOMANDA: Vuoi dire che ti rifiuti di dare altre risposte fino a che la commissione non abbia deliberato? Capirai che la commissione non è autorizzata a prendere una decisione immediata. RISPOSTA DI BERTON: Lo so. Qui finiva il primo verbale. C’era un frammento del secondo, redatto undici giorni dopo. IL PRESIDENTE:… prendendo tutto in considerazione, la commissione, composta di tre medici, tre biologi, un fisico, un ingegnere meccanico e il sostituto capo spedizione, è arrivata alla conclusione che i fatti accaduti a Berton sono il contenuto di un insieme di allucinazioni avvenute sotto l’influsso dell’avvelenamento causato dall’atmosfera del pianeta, con sindrome morbosa accompagnata da eccitazione delle zone associative della corteccia cerebrale, e in questi casi niente, o quasi niente, corrisponde più alla realtà. BERTON: Mi scusi. Che cosa vuol dire «niente o quasi niente»? Cos’è «quasi niente»? Che senso ha? IL PRESIDENTE: Non ho ancora finito. E’ stato messo a verbale un votum separatum del dottore in fisica Archibald Messenger, il quale dichiara che quanto riferito da Berton potrebbe obiettivamente accadere e che, a parer suo, meriterebbe attento esame. Questo è tutto. BERTON: Ripeto la mia domanda di prima. IL PRESIDENTE: La spiegazione è semplice. «Quasi niente» sta a indicare che certi fenomeni reali potevano favorire le tue allucinazioni, Berton. Una persona completamente normale può vedere durante una notte di vento, invece di un albero, una persona. Chissà che cosa può succedere, su un pianeta estraneo, quando il cervello dell’osservatore si trova sotto l’influsso del veleno. Non è colpa tua, Berton. Allora, qual è la tua decisione? BERTON: Vorrei, come prima cosa, sapere quali sono le conseguenze di quel votum separatum del dottor Messenger. IL PRESIDENTE: Praticamente nessuna. Ciò significa che le ricerche in questo campo non saranno fatte. BERTON: Ciò che stiamo dicendo viene messo a verbale? IL PRESIDENTE: Sì. BERTON: Vorrei dichiarare che la commissione, secondo il mio parere, non ha danneggiato me (io non conto), ma il significato stesso della spedizione. Come ho detto prima, alle altre domande non risponderò. IL PRESIDENTE: E’ tutto? BERTON: Sì, ma vorrei parlare col dottor Messenger. E’ possibile? IL PRESIDENTE: Naturalmente. Con questo terminava il secondo verbale. In fondo alla pagina era annotato a piccoli caratteri che il dottor Messenger ebbe con Berton, il giorno dopo, una conversazione di circa tre ore, dopo la quale si rivolse al consiglio direttivo della spedizione chiedendo di ricominciare da capo le ricerche in base alle dichiarazioni del pilota. Affermava che erano emersi dei dati nuovi, forniti da Berton, ma che avrebbe potuto riferirli solo se il consiglio avesse preso una decisione positiva. Il consiglio, composto da Shannahan, Timolis e Trahier, diede parere negativo, e con ciò la questione fu chiusa. Il volume conteneva anche la fotocopia dell’ultima pagina di una lettera trovata fra i documenti di Messenger dopo la sua morte. Probabilmente era una minuta, ma Ravintzer non era riuscito a stabilire se queste note avessero avuto un seguito. «… colossale ottusità.» Così cominciava il testo. «Per la preoccupazione di mantenere la sua autorità, la commissione, e più precisamente Shannahan e Timolis (poiché la voce di Trahier non conta), ha respinto le mie raccomandazioni. Mi rivolgo adesso direttamente all’Istituto, ma capisco che è una protesta inutile. Avendo dato la mia parola, non posso riferirti ciò che mi aveva descritto Berton. La decisione del consiglio è stata motivata dal fatto che la testimonianza veniva da un uomo incolto, anche se qualsiasi studioso dovrebbe invidiare a questo pilota la lucidità di mente e la capacità di osservazione. Mandami, ti prego, per posta: 1) la biografia di Fechner, specialmente i particolari sulla sua infanzia; 2) tutto ciò che sai della sua famiglia e della sua situazione familiare; sembra che sia rimasto orfano da bambino; 3) la topografia del luogo dove è stato allevato. «Vorrei dirti che cosa penso di tutto ciò. Dopo la partenza di Fechner e Carucci, nel centro del sole rosso si creò una macchia che, secondo i dati forniti dal satellite, bombardò con le sue radiazioni corpuscolari particolarmente l’emisfero sud, dove si trovava la base, neutralizzando le trasmissioni radio. Fechner e Carucci si erano allontanati più di tutti dalla base. «Dall’arrivo sul pianeta, e fino a quel malaugurato giorno, non c’era mai stata una nebbia così fitta, né un silenzio radio così completo. «Penso che la cosa vista da Berton facesse parte della ‘Operazione Uomo’ intrapresa da quel mostro appiccicoso. In effetti la fonte di tutte le creazioni viste da Berton era Fechner, o meglio il suo cervello, sottoposto a una ‘dissezione psicologica’ per noi inconcepibile; riguardava una ricreazione o ricostruzione sperimentale, sulla scorta di alcune tracce (quelle sicuramente più durature) incise nella sua memoria. «Lo so che possono sembrare fantasticherie; so anche che posso sbagliare. Ma ti prego di aiutarmi. Attualmente mi trovo sull’Alarico, e lì aspetterò la tua risposta.      Tuo A.» Si era fatto così buio che riuscivo a malapena a leggere. Il libro era diventato grigio, ma la pagina vuota indicava che ero arrivato alla fine di quella testimonianza, alla quale, avendo vissuto quel che avevo vissuto, ero incline a prestare fede. Mi girai verso la finestra. L’orizzonte era immerso in un viola profondo, come se ci fossero le braci di un fuoco di carbone che si spegne. L’oceano coperto di tenebre era invisibile. Sentivo il leggero fruscio della carta attaccata ai ventilatori. L’aria riscaldata, con un leggero odore di ozono, era immobile. Un silenzio assoluto riempiva la stazione. Pensai che nella nostra decisione di rimanere non c’era niente di eroico. Il periodo delle spedizioni coraggiose, delle lotte planetarie epiche, delle tremende morti, come per esempio quella di Fechner, era chiuso già da tempo. Non m’interessava più chi fossero gli ospiti di Snaut e Sartorius. Poi mi ritrovai a pensare: «Smetteremo di vergognarci e isolarci. Se non riusciremo a toglierci di dosso gli ‘ospiti’, ci abitueremo e vivremo con loro, e se il loro creatore ha voluto cambiare le regole del gioco, ci adatteremo a queste novità, anche se per un certo periodo di tempo saremo recalcitranti e ci ribelleremo, anche se qualcuno di noi cederà allo sconforto e si ucciderà. Alla fine riusciremo ad arrivare a un equilibrio». La stanza si riempiva di un buio che assomigliava molto a quello terrestre. Solo le forme bianche del lavandino e dello specchio schiarivano l’oscurità. Mi alzai e, tentoni, ritrovai il batuffolo di cotone sul ripiano: mi detersi la faccia e mi sdraiai sul letto. In qualche posto sopra di me si sentiva un ronzio simile a quello di una falena, che aumentava e diminuiva. Era il condizionatore. Non vedevo nemmeno la finestra, tutto era immerso nelle tenebre, solo un filo di luce, che non sapevo da dove giungesse, passava sopra di me, forse proveniva dalla parete, forse da lontano, forse dal fondo del deserto che si trovava dietro la finestra. Mi ricordai come mi aveva spaventato, il giorno prima, lo spazio di Solaris, e quasi sorrisi. Non ne avevo più paura. Non avevo paura di niente. Mi avvicinai il polso agli occhi. Il quadrante dell’orologio brillò con tutte le cifre fosforescenti. Di lì a un’ora sarebbe cominciata l’alba del sole azzurro. Mi godevo il buio, respiravo profondamente, vuoto e libero da ogni pensiero. A un certo punto, mentre mi muovevo, sentii la forma piatta del registratore che mi premeva sulla coscia. Vero. Gibarian. La sua voce era incisa sul nastro. Non mi era venuto ancora in mente di ascoltarla. Era tutto ciò che avrei potuto fare per lui. Estrassi il registratore per nasconderlo sotto il letto. Sentii un fruscio e un leggerissimo scricchiolio della porta che si apriva: — Chris…? — percepii nel silenzio una voce che era quasi un sussurro. — Sei qua, Chris? C’è tanto buio. — Non importa — dissi. — Non aver paura, vieni. 7. IL CONSIGLIO Ero steso supino, con la sua testa sulla spalla, e non pensavo a niente. Le tenebre che riempivano la camera prendevano vita. Udivo dei passi. Le pareti sparivano. Qualcosa si accumulava sopra di me, sempre più alto e senza limite. Trafitto da parte a parte, rinserrato senza essere toccato, ero coagulato nelle tenebre, ne sentivo la trasparenza acre, che sostituiva l’aria. Molto lontano udii il mio cuore. Chiamai a raccolta tutta l’attenzione, tutte le forze residue, nell’attesa dell’agonia. Non venne. Rimpicciolivo, e l’invisibile cielo senza orizzonte, spazio informe privo di nuvole e di stelle, si allontanava, si ampliava, cresceva, prendendomi come centro. Cercai di rintanarmi, là dov’ero sdraiato, ma non c’era più niente sotto di me. Con le mani mi coprii il viso. Non l’avevo più. Le dita, chiudendosi, vi passarono attraverso. Volevo gridare, urlare… La camera era grigioazzurra. Gli arredi, gli scaffali, gli angoli erano come isolati fra larghe strisce opache, informi e senza colore. Un bianco più chiaro della perla appariva in silenzio da dietro la finestra. Avevo il corpo inzuppato di sudore, guardai di lato, lei mi stava osservando. — Ti si è intorpidito il braccio? — Cosa? Alzò la testa. Aveva gli occhi dello stesso colore della camera, grigi, che lucevano fra le ciglia nerissime. Sentii il calore del suo sussurro prima di capirne le parole. — No. Ah, sì. Le posai la mano sulla spalla. Il contatto mi elettrizzava. Con l’altra mano l’attirai lentamente a me. — Hai fatto un brutto sogno? — Un sogno? Sì, un sogno. E tu non hai dormito? — Forse no, non lo so. Non avevo sonno. Tu, però, dormi ancora un po’. Perché mi guardi così? Socchiusi gli occhi. Sentivo il battito regolare del suo cuore contro il mio, che batteva un po’ più lentamente. «Accessorio di scena» pensai. Ma non mi meravigliavo più di niente, neanche della mia stessa indifferenza. Ormai mi ero lasciato alle spalle la paura e la disperazione. Ero arrivato lontano, oh, così lontano nessuno era mai andato. Le mie labbra le sfiorarono il collo, scesero giù fino alle piccole cavità fra i tendini, lisce come l’interno di una conchiglia. Anche qui sentivo la pulsazione. Mi sollevai, appoggiandomi sul gomito. Niente aurora, niente dolcezza dell’alba. Un bagliore di un azzurro elettrico abbracciava l’orizzonte. Il primo raggio scoccò attraverso la camera come un dardo e i suoi riflessi giocarono su tutto. Nello specchio, sulle maniglie, sui tubi di nichel si infransero i riflessi dell’arcobaleno, sembrava che la luce si precipitasse su ogni superficie liscia per conquistare nuovo spazio, per far saltare in aria la camera. Mi voltai. Le pupille di Harey si erano contratte. L’iride grigia dei suoi occhi si alzò fissandosi sul mio viso. — E’ già giorno? — chiese con voce spenta. Era fra sonno e veglia. — Qui è sempre così, cara. — E noi? — Noi, che cosa? — Staremo qui ancora a lungo? Mi venne quasi da ridere. Ma quando udii la voce turbata che mi uscì dal petto, non aveva nulla di una risata. — Penso che staremo qui a lungo. Ti spiace? Mi fissava senza muovere ciglio. Batteva le palpebre, in genere? Non ne ero sicuro. Tirò su la coperta e scorsi sul suo braccio il minuscolo, roseo segno dell’iniezione. — Perché mi guardi? — Perché sei bella. Sorrise. Ma solo per cortesia, per ringraziarmi del complimento. — Veramente? E’ che mi guardi, come se tu… come se io… — Cosa? — Come se tu cercassi qualcosa. — Storie! — No, è come se tu pensassi che ho, o che ti ho, taciuto qualcosa. — Ma no. — Se neghi a questo modo, allora è vero. Ma fa’ come vuoi. Da dietro le lastre avvampanti veniva un’incandescenza azzurro smorto. Facendomi schermo con la mano, cercai gli occhiali. Erano posati sul tavolo. Inginocchiato sul letto, li infilai e vidi la sua immagine riflessa nello specchio. Aspettava qualcosa. Quando mi sdraiai nuovamente al suo fianco, mi sorrise. — E per me? Di colpo capii. — Gli occhiali? — Mi alzai e cominciai a cercare nei cassetti del tavolino sotto la finestra. Ne trovai due paia, erano grandi. Glieli diedi. Li provò, uno dopo l’altro. Le cadevano fino alla metà del naso. Con un lungo cigolio cominciavano a chiudersi le saracinesche delle finestre. In un secondo, all’interno della stazione, che in quel momento era simile a una tartaruga che si ritira nel suo guscio, dominò la notte. A tentoni le tolsi gli occhiali e assieme ai miei li misi sotto il letto. — Cosa faremo? — domandò. — Ciò che si fa di notte. Dormiremo. — Chris. — Cosa? — Ti faccio un nuovo impacco? — No, non occorre… non ce n’è bisogno, cara. Nel dirle questa parola, non mi era chiaro se fosse simulazione; ma di colpo, nel buio, abbracciai ciecamente le sue piccole spalle e, sentendole tremare, credetti in lei. Insomma, non so, tutt’ ad un tratto mi sembrò che lei non m’ingannasse, e che invece fossi io a ingannarla, poiché lei in fondo era solo se stessa. Dormii a tratti, nel dormiveglia mi coglievano dei crampi. Il martellamento del cuore si placava pian piano. La abbracciavo più stretta, stanco morto, e lei mi toccava la faccia, la fronte, molto delicatamente, per vedere che non avessi la febbre. Era Harey. Non poteva esisterne un’altra più genuina. Dopo questo pensiero, in me si produsse un cambiamento: smisi di lottare e quasi immediatamente mi addormentai. Mi svegliò un leggerissimo tocco. Un senso di refrigerio mi cingeva la fronte. Ero sdraiato con la faccia coperta da qualcosa di umido e leggero che si alzò lentamente. Vidi la faccia di Harey chinata su di me. A due mani strizzava la garza su una ciotola di porcellana. Di fianco c’era la crema contro le bruciature. Mi sorrise. — Che sonno pesante hai — mi disse, mettendomi di nuovo la garza. — Ti fa male? — No. Mossi la pelle della fronte, effettivamente le bruciature non mi davano fastidio. Harey era seduta sulla sponda del letto, avvolta in un accappatoio da uomo a strisce bianche e arancione, i suoi capelli neri cadevano sciolti sul colletto. Le maniche erano rimboccate fino al gomito. Avevo una fame terribile, non toccavo cibo da venti ore. Quando Harey terminò le sue cure sul mio viso, mi alzai. Il mio sguardo cadde subito su due vestiti identici; bianchi con i bottoni rossi, posati l’uno accanto all’altro: il primo, quello che io stesso avevo tagliato per aiutarla a toglierselo; il secondo, con il quale era tornata il giorno prima. Questa volta lei stessa aveva tagliato con le forbici la cucitura. Disse che sicuramente la cerniera si era bloccata. Quei due vestiti erano la cosa più difficile da sopportare fra tutte quelle capitate fino ad allora. Harey stava mettendo in ordine l’armadietto con i medicinali; le volsi furtivamente le spalle e mi morsi a sangue la mano. Senza staccare gli occhi da quei due abiti, o meglio da quell’abito duplice, cominciai a retrocedere verso l’uscita. L’acqua usciva dal rubinetto rumorosamente. Aprii la porta e la chiusi con molta cautela, sgattaiolando silenziosamente nel corridoio. Udivo debolmente il rumore dell’acqua che scorreva e il tintinnio delle bottiglie, e a un tratto ogni rumore cessò. Nel corridoio erano accese le lunghe lampade da soffitto, una piccola macchia di luce si rifletteva sulla superficie della porta, e io aspettavo, a denti stretti, con la maniglia tra le dita, pur se prevedevo che non sarei riuscito a trattenerla. Un colpo improvviso quasi me la tolse di mano, ma la porta resistette e non si aprì, vibrò soltanto, poi scricchiolò terribilmente. Mollai la presa impietrito e retrocessi. A quella porta stava accadendo una cosa incredibile: la sua superficie di plastica liscia cominciò a curvarsi e a gonfiarsi verso l’interno della camera. Lo smalto si sbriciolò, scoprendo l’acciaio dell’intelaiatura che si arcuava sempre più. Di colpo capii: invece di spingere la porta, che si apriva verso il corridoio, lei cercava di aprirla tirandola verso di sé. Il riflesso della luce sulla superficie si deformò come in uno specchio concavo, si udì un forte schianto e la lastra piegata si ruppe. Contemporaneamente, la maniglia si staccò con tutta la serratura e cadde sul pavimento della stanza. Dall’apertura spuntarono un paio di mani insanguinate che lasciavano lunghe tracce rosse sullo smalto. La porta si era spezzata in due parti appese di sbieco ai cardini, e una creatura biancoarancione con un viso livido come una morta mi si gettò sul petto singhiozzando. Questo spettacolo mi inchiodò dov’ero, non tentai nemmeno di fuggire. Harey tentava convulsamente di riprendere il respiro, batteva il capo contro la mia spalla e faceva volare i capelli; quando l’abbracciai, sentii che mi crollava tra le mani. La portai nella stanza, passando di fianco alla porta distrutta, e la posai sul letto. Aveva le unghie rotte e tutte insanguinate. Quando le girai la mano, vidi che la palma era scarnificata. La fissai in viso, i suoi occhi mi attraversavano, senza espressione. — Harey? Mi rispose con un brontolio inarticolato. Le avvicinai un dito all’occhio. La palpebra si chiuse. Andai all’armadietto dei medicinali. Il letto scricchiolò. Mi voltai. Si era levata a sedere e guardava con spavento le mani insanguinate. — Chris — gemette. — Io… io… che cosa mi è successo? — Ti sei ferita cercando di sfondare la porta — dissi seccamente. Avvertii qualcosa sulle labbra, specialmente sul labbro inferiore, come se ci fossero delle formiche. Lo trattenni con i denti. Harey osservò un momento quei pezzi di porta scheggiati e tornò con lo sguardo verso di me. Le tremò il mento, vidi lo sforzo con il quale cercava di dominare la paura. Tagliai alcuni pezzi di garza, presi dall’armadietto la polvere per le ferite e tornai verso il letto. Tutto ciò che portavo in mano mi cadde di colpo, la boccetta di vetro col liquido gelatinoso si ruppe, ma non mi chinai neppure, non era più necessario. Sollevai le sue palme. Aveva ancora tracce di sangue secco sulle unghie, ma le ferite erano scomparse, la pelle appariva più chiara, più giovane, più rosea. La cicatrice spariva quasi a vista d’occhio. Sedetti, le accarezzai il volto e cercai di sorridere; non posso dire di esserci riuscito. — Perché l’hai fatto, Harey? — No. Sono stata… io? — Con lo sguardo indicava la porta. — Sì. Non ti ricordi? — No. Ossia, mi sono accorta che non c’eri e mi sono spaventata molto e… — E allora? — Ho cominciato a cercarti, ho pensato che forse eri nel bagno… Mi ero accorta che l’armadio mi bloccava la vista del bagno. — E poi? — Sono corsa verso la porta. — E allora? — Non ricordo. Qualcosa dev’essere successo… — Che cosa? — Non lo so. — Che cosa ricordi? Cos’è successo dopo? — Sedevo qui, sul letto. — Il fatto che ti ho portata io, non lo ricordi? Esitò. Gli angoli della bocca si abbassarono, il viso appariva pieno di tensione. — Mi sembra. Forse. Non lo so. Mise i piedi a terra e si alzò. Si avvicinò alla porta distrutta. — Chris! La cinsi tra le mie braccia standole alle spalle. Tremava. Di colpo si girò cercando i miei occhi. — Chris — sussurrò. — Chris. — Calmati. — Chris, se sono stata io, Chris, sono epilettica? Epilettica, mio Dio! Mi veniva da ridere. — Macché, amore. Semplicemente, qua, la porta, sai, sono così queste porte… Lasciammo la stanza nel momento in cui si aprivano le saracinesche col solito rumore, mostrando l’immergersi del disco solare nell’oceano. Mi diressi verso il piccolo locale della cucina, che era all’altra estremità del corridoio. Mi affacciai insieme ad Harey, rovistando nei cassetti e nei frigo. Mi accorsi subito che non era capace di cucinare, come me. Mangiai il contenuto di varie scatolette e bevvi parecchie tazze di caffè. Harey mangiava anche lei, ma così come ogni tanto mangiano i bambini, per far piacere ai grandi: senza sforzo ma meccanicamente, con indifferenza. Ci dirigemmo verso una piccola sala operatoria, accanto alla cabina radio: avevo un nuovo piano. Le dissi che desideravo sottoporla a un controllo medico generale. La feci sedere su una poltrona e presi da uno sterilizzatore una siringa con l’ago. Sapevo dove si trovavano le cose quasi a memoria per averlo imparato durante il periodo di addestramento a terra. Estrassi una goccia di sangue dal suo dito, feci un vetrino, lo asciugai sotto l’aspiratore e lo sottoposi a una pioggia di ioni d’argento sottovuoto. Questo lavoro mi calmava. Harey, riposando sui cuscini della poltrona, faceva vagare lo sguardo sul fitto spiegamento di apparecchi della saletta operatoria. Il silenzio fu rotto dal ronzio del telefono interno. Alzai il ricevitore. — Kelvin — dissi. Non distoglievo lo sguardo da Harey, che da un po’ di tempo sembrava piuttosto apatica, come esausta per le esperienze vissute nelle ultime ore. — Sei lì, in chirurgia? Finalmente! — sentii come un sospiro di sollievo. Parlava Snaut. Aspettai, col ricevitore incollato all’orecchio. — Hai un ospite, vero? — Sì. — E sei occupato? — Sì. — Stai facendo certi controlli, eh? — E con ciò? Vuoi fare una partita a scacchi? — Ah, piantala, Kelvin! Sartorius vuole vederti. O meglio, vederci. — Questa è una novità — risposi sorpreso. — E’ con… — mi interruppi e conclusi: — E’ solo? — No. Mi sono espresso male. Vuole soltanto parlare con noi. Ci metteremo in collegamento a tre col videotelefono, solo che copriremo il video. — Ah, sì? Allora perché non mi ha chiamato direttamente? Si vergogna? — Qualcosa di simile — brontolò Snaut. — Allora? — Dobbiamo fissare un appuntamento? Diciamo fra un’ora. Va bene? — Bene. Lo vedevo sul piccolo schermo, il suo viso non era grande più di un palmo. Per un momento mi guardò fisso negli occhi. Alla fine parlò con una certa titubanza: — Come ti va? — Discretamente. E a te? — Un po’ peggio, penso. Potrei… — Vuoi venire da me? — Avevo indovinato. Guardai Harey. Aveva la testa inclinata sul cuscino ed era sdraiata con una gamba sull’altra, giocando, annoiata, con una pallina d’argento che era attaccata con una catenella di fianco alla poltrona. — Lascialo! Mi senti? — mi giunse la voce irritata di Snaut. Vidi sul monitor il suo profilo. Il resto non lo sentii perché coprì il microfono con le mani, scorgevo solo le sue labbra muoversi. — No, non posso venire. Forse più tardi. Allora tra un’ora — disse poi in fretta, e il video si spense. Attaccai il ricevitore. — Chi era? — domandò Harey senza interesse. — Un tale Snaut. Un informatico. Non lo conosci. — Durerà ancora a lungo? — Ti annoi? — le chiesi. Collocai nel cassetto del microscopio a neutroni il primo preparato della serie e premetti via via la fila di bottoni variamente colorati. I campi di forza ronzavano sordamente. — Non ci sono grandi divertimenti, qua, e se non ti basta la mia compagnia, pazienza — continuai, prolungando distrattamente la pausa tra una parola e l’altra; allo stesso tempo presi tra le mani la testata nera del microscopio, la tirai verso di me e premetti gli occhi sulla soffice feritoia di gomma. Harey disse qualcosa che però non mi raggiunse. Vedevo dall’alto, in ripido scorcio, un gran deserto inondato di luce argentea. Immersi in questa, e circondati da una specie di nebbia, c’erano dei massi piatti, sgretolati ed erosi: i globuli rossi. Senza staccare gli occhi dall’oculare, mettevo sempre più a fuoco l’obiettivo, penetrando a poco a poco nel fondo di quel campo visivo argentato. Al tempo stesso, con la mano sinistra, giravo la manopola che regolava il supporto. Quando trovai il masso erratico di un globulo rosso, isolato, cominciai ad aumentare l’ingrandimento. L’eritrocito era leggermente incurvato nel mezzo e aveva l’aspetto di un cratere roccioso circolare, con ombre nette e nere nel margine interiore dell’anello. Questo margine, irto di cristalli d’argento, sfuggì dal campo del microscopio. Apparve la sua struttura di amminoacidi: anelli atrofizzati e distorti dai contorni leggermente intorbidati visti come attraverso un’acqua opalescente. Fisso su una delle catene di albumina rovinate, muovevo leggermente la vite per aumentare la visuale. Di lì a un attimo sarebbe dovuto apparire il limite ultimo di quel viaggio nelle profondità. L’ombra appiattita di una molecola riempì tutto il campo, divenne sfumata. Però non successe niente. Avrei dovuto vedere, in quella nebbia, degli atomi vibranti come una distesa di erba tremula, ma non c’erano. Il campo visivo era tutto argentato. Mossi la vite sino alla fine. Crebbe il ronzio, ma non vidi nient’altro. Il suono ripetuto di un segnale d’allarme mi indicò che l’apparecchio era in sovraccarico. Osservai ancora un attimo quel deserto argenteo e staccai la corrente. Guardai Harey. Apriva in quel momento la bocca per uno sbadiglio, ma lo cambiò abilmente in un sorriso. — Come sto? — chiese. — D’incanto — dissi. — Penso che… non potresti stare meglio. Continuavo a guardarla, sentendo di nuovo quel formicolio sul mento. Che cos’era successo? Che cosa significava? Questo corpo, apparentemente delicato e fragile, in realtà indistruttibile, risultava alla fine composto di niente? Picchiai col pugno il corpo cilindrico del microscopio. Forse era difettoso? Forse i campi non si mettevano a fuoco…? Non sapevo se l’apparecchiatura fosse efficiente. Ero passato attraverso tutti i gradi, le cellule, i conglomerati di amminoacidi, le molecole; tutto sembrava uguale a milioni di preparati che avevo già visto. Ma l’ultimo passo non dava alcun esito. Le prelevai del sangue da una vena e lo versai in un cilindro. Lo suddivisi in provette e mi misi ad analizzarlo. Impiegai un tempo maggiore del previsto, avevo un po’ perso la mano. Le reazioni erano normali. Tutte. Solo che… Versai sulla macchia rossa una goccia di acido concentrato. Fumò, la goccia divenne grigia, si coprì di uno strato di spuma sporca. Decomposizione. Denaturalizzazione. Dopo, dopo! Presi in mano la provetta. Mi girai per prenderne un’altra, e, quando ritornai a guardarla, quel vetro sottile quasi mi cadde dalle dita. Sotto lo strato della schiuma sporca si riformava uno strato rosso scuro. Il sangue bruciato dall’acido si rigenerava! Era un’assurdità, era impossibile! — Chris! — udii come da molto lontano. — Telefono, Chris! — Cosa? Ah, sì, grazie. — Il telefono squillava ininterrottamente già da un po’, ma non l’avevo sentito. Alzai il ricevitore. — Kelvin. — Snaut. Ho inserito la linea in modo tale che si possa parlare contemporaneamente in tre. — La saluto, dottor Kelvin — disse la voce alta e nasale di Sartorius. Suonava come se il suo proprietario stesse salendo su un traballante podio per conferenze, sospettoso e vigile, cercando di dominarsi. — I miei rispetti, signor dottore. Mi veniva da ridere, ma non ero sicuro che avessi motivo di abbandonarmi all’allegria. Che cosa avevo da ridere, in fin dei conti! Tenevo qualcosa in mano: la provetta col sangue. La scossi. Era coagulato. Forse un momento prima avevo avuto un’allucinazione? Forse mi era solo sembrato? — Volevo esporvi, egregi colleghi, certe questioni che hanno attinenza con… i fantasmi. — Udivo Sartorius e non l’udivo. Come se cercasse di imporsi alla mia percezione. Mi difendevo da quella voce, continuavo a fissare la provetta col sangue coagulato. — Chiamiamole creazioni F — disse rapido Snaut. — Ah, va bene. In mezzo al video una linea verticale indicava che si ricevevano contemporaneamente due canali; sui due lati avrebbero dovuto trovarsi le facce dei miei interlocutori. Il monitor era buio e solo una linea di contorno illuminata testimoniava che l’apparecchio era in funzione. — Ognuno di noi ha fatto ricerche diverse… — Ancora quella stessa prudenza, nella voce nasale dell’interlocutore. Un momento di silenzio. — Forse è opportuno che uniamo tutte le nostre informazioni e poi parlerò di ciò che sono riuscito a ottenere personalmente… Forse possiamo cominciare da lei, dottor Kelvin… — Io? — dissi. Di colpo sentii lo sguardo di Harey. Misi la provetta sulla tavola, facendola rotolare sotto il portaprovette di vetro, e sedetti su uno sgabello molto alto a tre gambe, che avevo avvicinato col piede. In un primo momento pensai di sottrarmi; ma, con mia stessa sorpresa, dissi: — Bene. Una piccola conferenza? Bene! Non ho fatto quasi niente finora, ma posso parlare. Un preparato istologico e qualche reazione. Una microreazione. Ho avuto l’impressione che… Fino a quel momento non avevo idea di quel che avrei detto. Di colpo, qualcosa parve aprirsi dentro di me. — Tutto è nella norma, ma questo è camuffamento. Mascheramento. In un certo senso, si tratta di una supercopia: di una ricostruzione, più perfetta dell’originale. Ciò significa che dove nell’uomo troviamo alla fine della granulosità, il confine della divisione strutturale, qua il cammino continua grazie alla presenza di materiale subatomico! — Un momento. Un momento. Come dobbiamo interpretare questa affermazione? — indagò Sartorius. Snaut non parlò. Forse era suo il respiro accelerato che si udiva nel ricevitore? Harey guardò dalla mia parte. Mi resi conto che nell’eccitazione avevo quasi gridato le ultime parole. Mi calmai, mi curvai sul mio scomodo sedile e chiusi gli occhi. Come esprimermi? — L’elemento strutturale ultimo dei nostri corpi è l’atomo. Penso che le creazioni F siano formate da particelle più piccole dei semplici atomi. Molto più piccole. — Mesoni…? — interloquì Sartorius. Non era affatto sorpreso. — No, non sono mesoni… i mesoni si vedrebbero. Il potere risolutivo dell’apparecchio che ho qui raggiunge dal decimo al ventesimo di angstrom, vero? Ma alla fine non si vede niente. Quindi non sono mesoni. Forse neutrini. — Come se l’immagina, lei? Poiché i conglomerati di neutrini non sono stabili… — Non lo so. Non sono un fisico. Forse sono fissati da un campo magnetico. Non me ne intendo. A ogni modo, se è come dico, il materiale per la costruzione è composto da particelle circa diecimila volte più piccole degli atomi. Ma non è tutto. Se le molecole di amminoacidi e le cellule fossero costituite da questi microatomi, allora dovrebbero essere più piccole. E anche i globuli, i corpuscoli, tutto. Ma non è così. Ne consegue che tutto, la proteina, le cellule, il nucleo delle cellule, sono solo una maschera. La vera struttura, responsabile del funzionamento dell’ ospite è nascosta più in fondo. — Ma, Kelvin! — gridò quasi Snaut. M’interruppi spaventato. Avevo detto ospite? Sì, ma Harey non l’aveva udito. E, al caso, non avrebbe capito. Guardava fuori dalla finestra, con la testa posata su una mano, e il suo profilo netto e minuto si stagliava sull’alba purpurea. I miei interlocutori telefonici tacevano. Udivo dei respiri lontani. — C’è qualcosa di vero in questo — borbottò poi Snaut. — Sì, è possibile — aggiunse Sartorius. — Abbiamo solo l’ostacolo del fatto che l’oceano non è costituito dalle ipotetiche particelle di Kelvin. E’ costruito con atomi normali. — Forse riesce a sintetizzarle — osservai. Improvvisamente mi colse l’apatia. Quel discorso non era affatto divertente. Era inutile. — Ciò spiegherebbe l’incredibile resistenza — borbottò Snaut. — E la rapidità di rigenerazione. Forse, anche, recano in sé una fonte energetica, non hanno bisogno di mangiare… — Domando la parola. — Era Sartorius. Non lo potevo soffrire. Se almeno si fosse spogliato della parte di cui si era investito! — Desidero sollevare la questione della motivazione. Motivazione dell’apparizione delle creazioni F. La imposterei così: che cosa sono le creazioni F? Non sono persone, e nemmeno copie di certe persone, ma proiezioni materializzate di ciò che, a proposito di una certa persona, pensa il nostro cervello. L’esattezza della definizione mi colpì. Quel Sartorius, per quanto antipatico, non era poi così stupido. — Bene — ripresi. — Ciò spiegherebbe perché sono apparse determinate, e non altre, pers… creazioni. Sono state selezionate le tracce mnemoniche più fisse, le più isolate dalle altre; ma, naturalmente, nessuna traccia può essere completamente isolata dalle altre che compongono la memoria. Nel momento della copia rimanevano, e possono essere stati assunti, dei residui di altre tracce casualmente contigue. Perciò il nuovo arrivato dimostra di avere una conoscenza più estesa, di cui non potrebbe essere in possesso la persona autentica, della quale esso vuole essere il duplicato… — Kelvin! — disse di nuovo Snaut. Mi colpì il fatto che egli recalcitrasse alle mie parole imprudenti. Invece pareva che Sartorius non se ne preoccupasse affatto. Voleva dire che il suo ospite era di natura meno perspicace di quello di Snaut? Per un momento m’immaginai al fianco dell’esimio dottor Sartorius la figura di un piccolo cretino. — Certo, lo abbiamo infatti notato — rispose lui. — Ora, per ciò che riguarda le motivazioni dell’apparizione delle creazioni F… La prima idea che si presenta spontaneamente è quella che venga condotto un esperimento su di noi. Sarebbe comunque un esperimento assai… misero. Noi, quando sperimentiamo, ricaviamo un insegnamento dai risultati, e in primo luogo dagli errori, così che, nelle successive ripetizioni, introduciamo delle rettifiche… Qui non se ne parla nemmeno. Queste creazioni F riappaiono da capo… non corrette… non attrezzate contro le nostre… prove di eliminazione… — In una parola, non c’è un dispositivo compensatore a feedback, come direbbe il dottor Snaut — osservai. — Che cosa risulta da questo? — Soltanto il fatto che, se fosse un esperimento, sarebbe… un pasticcio, cosa assai improbabile. L’oceano è… molto preciso. Lo dimostra, fra l’altro, la costituzione a doppio livello delle creazioni F. Fino a un certo limite si comportano come si comporterebbero… i veri… Non riusciva a uscirne fuori. — Gli originali — disse in fretta Snaut. — Sì, gli originali. Ma quando la situazione supera le normali possibilità medie del… ehm… originale… subentra come una «disconnessione di coscienza» della creazione F e affiora direttamente un altro meccanismo, inumano… — E’ vero — dissi — ma, in questo modo, formiamo un catalogo dei comportamenti di queste… queste creazioni, e nient’altro. E’ completamente inutile. — Non ne sono troppo sicuro — protestò Sartorius. Capii a un tratto che cosa mi dava fastidio, in lui: non parlava, no; teneva una conferenza, come in una sessione dell’Istituto. Forse non riusciva a esprimersi in altro modo. — Qui entra in gioco la questione dell’individualità. L’oceano non ha alcuna idea in proposito. Dev’essere così. Ritengo, cari colleghi, che il lato per noi… ehm… più scabroso e sconcertante dell’esperimento gli sfugga completamente, essendo fuori dei limiti della sua comprensione. — Lei pensa che ciò non sia intenzionale…? — domandai. Questa affermazione mi lasciava un po’ stupito, ma dopo una breve riflessione mi accorsi che non si poteva escluderla. — Sì. Non credo assolutamente che ci sia perfidia, malizia o volontà di colpire… contrariamente al collega Snaut. — No, non gli attribuisco nessun sentimento umano — intervenne Snaut per la prima volta. — Ma potete forse dirmi come si spiegano questi continui ritorni? — Forse è stato messo in moto un processo che sa solo ripetersi, come un disco — dissi con un pizzico di ironia, per infastidire Sartorius. — Gentili colleghi, cerchiamo di non disperderci — intervenne con la sua voce nasale il dottore. — Non è tutto ciò che avrei voluto dire. In condizioni normali avrei considerato prematuro dare comunicazioni dei miei lavori ma, tenuto conto della situazione specifica, farò un’eccezione. Ho l’impressione, ripeto, l’impressione, che la supposizione del collega Kelvin contenga una certa parte di ragione. Mi riferisco alla sua ipotesi sulla costruzione neutrinica… Conosciamo queste strutture solo teoricamente, non sapevamo che potessero essere stabilizzate. Qui si apre una possibilità, ben definita, di neutralizzare il campo magnetico che consolida la struttura… Da qualche tempo mi ero accorto che ciò che copriva il video di Sartorius si stava spostando: in un angolo del monitor si poteva scorgere una cosa rosea che si muoveva lentamente. — Via di lì! Via di lì! — si udì nel ricevitore l’urlo di Sartorius. Sul video illuminato si vide tra le braccia del dottore, protette da mezze maniche da laboratorio, un disco dorato; poi si spense tutto, prima che riuscissi a capire che quel disco dorato era un cappello di paglia… — Snaut? — dissi sospirando profondamente. — Sì, Kelvin — rispose la voce stanca dell’informatico. Sentii in quel momento che gli volevo bene. Non m’importava affatto di sapere chi gli faceva compagnia. — Può bastare, per ora, vero? — Penso di sì — risposi. — Senti, se puoi venire da me giù o nella mia cabina… ti va? — aggiunsi rapidamente prima che riuscisse ad attaccare il ricevitore. — D’accordo — disse. — Ma non so quando. E con questo finì la discussione. 8. I MOSTRI Nel mezzo della notte mi svegliò la luce. Mi alzai appoggiato sul gomito, mi coprii gli occhi con una mano. Harey, avvolta in un lenzuolo, era seduta sulla sponda del letto, rannicchiata, con la faccia coperta dai capelli. Le tremavano le spalle. Piangeva in silenzio. — Harey! Si raggomitolò ancora di più. — Cos’hai…? Harey… — Mi levai a sedere, ancora non del tutto presente, liberandomi a fatica dall’incubo che fino a poco prima mi aveva assillato. La ragazza aveva dei tremiti. L’abbracciai. Mi allontanò con il braccio. Nascondeva la faccia. — Amore. — Non mi parlare così. — Ma, Harey, che succede? Guardai la sua faccia umida e tremante. Grosse lacrime le scendevano sulle guance, brillavano quando arrivavano al mento e cadevano sul lenzuolo. — Non mi vuoi. — Cosa ti viene in mente! — Ti ho udito. Sentii che il mio viso si irrigidiva. — Che cos’hai sentito? Non hai capito, ero solo… — No. No. Dicevi che non sono io, che me ne debbo andare. Me ne andrei. Mio Dio! Me ne andrei, ma non posso. Non so che cosa sia. Vorrei, ma non posso. Sono così vigliacca! — Piccola mia! La presi, la strinsi con tutte le mie forze, e che tutto andasse in malora! Baciavo le sue mani bagnate e salate, ripetevo suppliche, promesse, richieste di perdono, dicevo che era stato solo un brutto sogno. A poco a poco si calmò. Smise di piangere. I suoi occhi erano immensi, occhi da sonnambula. Si asciugarono. E girò la testa. — No — disse. — Non mi dire questo, non ce n’è bisogno. Tu non sei più lo stesso con me… — Io non sono lo stesso! — gridai, mio malgrado. — Sì, tu non mi vuoi. Lo sento. Fingevo di non vederlo. Pensavo che fosse un’impressione, invece no. Ti comporti… sei diverso… Non mi tratti seriamente. E’ stato un sogno, è vero: ma sognavi me. Mi chiamavi per nome. Con avversione. Perché? Perché? Mi inginocchiai davanti a lei e abbracciai le sue ginocchia. — Piccola… — Non voglio che tu mi parli così. Non voglio, hai capito? Non sono una bambina. Sono… Scoppiò di nuovo in lacrime e cadde con la faccia riversa sul letto. Mi alzai. Dalle bocche dei ventilatori, con un ronzio cupo, arrivava aria fresca. Avevo freddo. Indossai l’accappatoio e sedetti accanto a lei toccandole la spalla. — Harey, ascolta. Ti dirò una cosa. Ti dirò la verità… Si rialzò puntellandosi sulle braccia. Vedevo le pulsazioni che le muovevano la pelle del collo. Sentii di nuovo che il mio volto si contraeva e provai un freddo intenso, come in una ghiacciaia. Nella testa avevo il vuoto completo. — La verità? — mi disse. — Parole sacre? Non risposi subito, dovevo sopravvivere al nodo che mi stringeva la gola. Questo era un nostro vecchio giuramento. Quando veniva pronunciato, nessuno dei due aveva il coraggio di mentire né di nascondere qualcosa. Per un periodo c’eravamo tormentati a furia di sincerità, nell’ingenua convinzione che ci avrebbe salvato. — Parole sacre — dissi seriamente. — Harey… Aspettava. — Anche tu sei cambiata. Tutti cambiamo. Ma non è questo che ti voglio dire. Sembra davvero… che, per motivi che non conosciamo bene né tu né io… non ti puoi staccare da me. Ma questo è anche un bene, perché neanch’io ci riesco… — Chris! L’alzai avvolta nel lenzuolo. L’angolo bagnato con le sue lacrime mi cadeva sulla spalla. La portavo su e giù attraverso la stanza e la cullavo. Mi accarezzò la faccia. — No. Tu non sei cambiato. Sono io — mi sussurrò nell’orecchio. — Mi succede qualcosa. Forse questo? Guardava lo spazio nero e vuoto della porta spaccata, di cui avevo portato i pezzi al magazzino. «Dovrò metterne una nuova» pensai, facendola stendere sul letto. — Ma tu non dormi qualche volta? — domandai, fermo, davanti a lei, con le braccia lungo il corpo. — Non lo so. — Come, non lo sai? Pensaci su, amore. — Forse, non è un sonno vero, forse sono ammalata. Quando sono sdraiata e penso, sai… — tremò. — Cosa? — domandai in un sussurro, non volendo che la voce mi tradisse. — Sono dei pensieri abbastanza strani. Non so da dove vengano. — Per esempio? — «Devo stare tranquillo» pensavo «qualunque cosa senta.» Mi preparai alle sue parole come a un grosso colpo. Scosse la testa, indecisa. — E’ qualcosa… intorno… — Non capisco… — Come se non fosse in me, ma più lontano; è qualcosa che non so spiegare. Non trovo le parole… — Probabilmente è un sogno — dissi con indifferenza, riprendendo fiato. — Adesso spegniamo la luce e, fino a domattina, niente più dispiaceri. Domani, se ne avremo voglia, ce ne procureremo di nuovi. Va bene? Tirò fuori la mano per raggiungere l’interruttore, cadde il buio; mi sdraiai sulle lenzuola fredde e sentii il caldo del suo respiro. La abbracciai. — Più forte — sussurrò. E dopo un lungo momento: — Chris! — Cosa? — Ti amo. Mi sarei messo a urlare. Il mattino era rosso. L’immenso disco solare spuntava appena sull’orizzonte. Posata sulla soglia c’era una lettera. Aprii la busta. Harey era in bagno, la udivo canticchiare. Di tanto in tanto faceva capolino per guardarmi, con i capelli tutti bagnati. Mi avvicinai alla finestra per leggere: «Kelvin, siamo in moto. Sartorius vuole che reagiamo energicamente. Crede di riuscire a distruggere la stabilità delle strutture di neutrini. Deve fare delle prove e ha bisogno di plasma, come materiale F di partenza. Propone che tu faccia una ricognizione e prelevi una certa quantità di plasma come scorta. Fa’ come meglio credi, ma avvisami della tua decisione. Mi pare che non mi sia rimasto altro da dire. Preferirei che tu lo facessi, così avremo qualche probabilità di muoverci, almeno in apparenza. Altrimenti rimarrà solo da invidiare G.      Topo      p. s. Non entrare nella cabina radio. Fallo per me. Telefonami.» Mi si strinse il cuore nel leggere quella lettera. La rilesssi attentamente, la stracciai e la buttai nell’acquaio. Poi cominciai a cercare una tuta per Harey. Cosa orribile. Tutto era come l’altra volta. Lei però non se ne accorgeva: non si sarebbe rallegrata così quando le dissi che dovevo uscire per una piccola ricognizione all’esterno della stazione e le chiesi di accompagnarmi. Facemmo colazione nella piccola cucina (Harey mangiò appena, come al solito) e ce ne andammo in biblioteca. Volevo dare un’occhiata alla letteratura che riguardava i problemi dei campi magnetici e delle strutture neutriniche prima di ottemperare ai desideri di Sartorius. Non sapevo ancora quale linea d’azione avrei adottato, ma preferivo poter avere un controllo sul suo lavoro. Mi venne in mente che quel «neutrinoannientatore» o altro che fosse, ancora di là da venire, significava forse la salvezza per Snaut e Sartorius, ma che io potevo nascondermi altrove con Harey, per esempio in volo. Rimasi per un bel pezzo a tu per tu col catalogo elettronico facendo richieste e ottenendo in risposta un «manca bibliografia» oppure l’alluvione di una giungla specialistica che mi lasciava indeciso. Non avevo voglia però di andarmene dal grande locale circolare dalle pareti lisce coperte di cassetti e ripiani pieni di microfilm e registrazioni elettroniche. La biblioteca era proprio al centro della stazione, non aveva finestre e rappresentava uno dei luoghi più isolati all’interno del guscio metallico. Forse per questo motivo mi trovavo così bene là dentro, a dispetto dell’esito poco soddisfacente delle mie ricerche. Gironzolai nella grande sala e finii col fermarmi davanti a una grande libreria. Non era un lusso, ma un omaggio solenne in memoria di tutti i pionieri delle esplorazioni su Solaris: i ripiani contenevano circa seicento volumi, tutti dedicati allo stesso argomento, a cominciare dalla vecchia e sorpassata monografia monumentale, in diciannove volumi, di Giese. Tirai giù quei libri, sotto il cui peso la mano si piegava, e cominciai a sfogliarli con indolenza, seduto sul bracciolo di una poltrona. Anche Harey si era trovata un libro: da sopra la sua spalla lessi qualche riga. Era un volume raro, della prima spedizione; forse era stato proprietà dello stesso Giese: Il cuoco interplanetario… Vedendo Harey concentrata a leggere le ricette escogitate per i cosmonauti, non dissi niente e tornai al testo che avevo sulle ginocchia. Dieci anni di ricerche su Solaris era stato pubblicato inizialmente nei volumi da quattro a tredici di Solaristica, la cui numerazione, adesso, era di quattro cifre. Giese non aveva una gran fantasia, ma questa dote avrebbe solo nuociuto a uno studioso di Solaris. In nessun altro luogo la fantasia e l’attitudine ad abbandonarsi prontamente alle ipotesi potevano essere più nocive. In fin dei conti, su questo pianeta accadeva di tutto. Per quanto incredibili, le descrizioni della miriade di costruzioni plasmatiche erano con ogni probabilità autentiche, anche se non controllabili poiché solo per certi casi l’oceano ripeteva le sue evoluzioni. Osservandole per la prima volta si rimaneva sbigottiti sia per il loro carattere insolito sia per la loro gigantesca grandezza; se si fossero presentate su scala minore, sarebbero state giudicate uno «scherzo di natura», puro frutto del caso o del gioco delle forze. La mediocrità e il genio rimanevano del pari interdetti di fronte alle metamorfosi di Solaris, cosa che non facilitava i rapporti con i fenomeni dell’oceano vivente. Giese non era appartenuto né all’una né all’altra categoria. Era semplicemente un classificatore pedante, della schiera di coloro che nella dedizione incondizionata e accanita al lavoro trovano rifugio dalle vicissitudini della vita. Usava, fin dove poteva, un linguaggio descrittivo abbastanza comune; ma quando gli mancavano le parole ne creava di nuove, non sempre con mano felice. Bisogna riconoscere, però, che non esistevano definizioni, per ciò che accade su Solaris. I suoi «montalberi», i suoi «longhi», «perfunghi», «mimoidi», «simmetriadi», «asimmetriadi», «vertebroidi» e «agilanti» suonano artificiosi, ma davano un’idea di Solaris a chi l’aveva visto soltanto in film o in fotografie di scarsa precisione. Questo ricercatore, per quanto scrupoloso, commise tuttavia qualche imprudenza. L’uomo è spinto suo malgrado a fare ipotesi, anche quando sta molto attento. Giese aveva considerato i «longhi» come tipo fondamentale delle formazioni, assimilandoli alle ondemarea dei mari terrestri, però molto più grandi e accavallati. Chi aveva letto la prima edizione delle sue opere sapeva che Giese aveva inizialmente chiamato appunto «maree» queste formazioni, ispirato da un geocentrismo che farebbe sorridere se non tradisse l’imbarazzo dello studioso. In realtà queste formazioni, che superano per grandezza, se si vogliono proprio stabilire dei paragoni con la Terra, il Grand Canyon del Colorado, sono modellate in una massa di materia che esternamente ha una consistenza gelatinosa schiumosa (che nel corso di quella fantastica lavorazione si coagula in blocchi facilmente sgretolabili, in trine traforate e inamidate, inducendo certi studiosi a parlare di «escrescenze scheletriche»), mentre all’interno la sostanza diventa via via più compatta, come un muscolo teso, e infine, a una profondità di una quindicina di metri, è dura come la pietra pur conservando l’elasticità. Fra le pareti simili alle ali membranose e tese di un mostro, alle quali si agganciano le escrescenze scheletriche, il longo si stende per chilometri, simile a un gigantesco pitone che ha divorato montagne e che le digerisce in silenzio, col corpo percorso ogni tanto da lente contrazioni. Ma solo dall’alto, da un apparecchio in volo, il longo appare così. Se si scende, quando le due «pareti del burrone» si innalzano per centinaia di metri al di sopra del velivolo, ci si accorge che il «corpo del pitone», quel cilindro gonfiato che si estende fino all’orizzonte, è animato da un moto vertiginoso. Si osserva per prima cosa il movimento ininterrotto di rotazione di una specie di mota scivolosa grigioverdastra che riflette con violenza la luce solare; ma quando l’apparecchio scende ancora fino a sfiorare la «schiena del pitone», quando le creste del «burrone» in cui si cela il longo appaiono come il ciglio di faglie geologiche, ci si accorge allora che i movimenti sono molto più complessi, esiste una circolazione mediana con dei rivoli scuri, e a volte il «manto» esterno è lucido come uno specchio che riflette il cielo e le nuvole, a volte è perforato da eruzioni di gas provenienti dall’interno semiliquido. A poco a poco diventa evidente che è in funzione lì sotto il centro di forze che divarica e che solleva verso l’alto i due versanti gelatinosi che lentamente cristallizzano. Ma ciò che era ovvio per l’occhio, non poteva essere accettato senza prove dalla scienza. Per quanti anni si è discusso su che cosa succedeva ai margini dei longhi che a milioni solcano la superficie dell’oceano vivo! Si pensava che fossero organi mostruosi nei quali avvenivano processi di respirazione o il trasporto di materie nutritive: solo la polvere delle biblioteche sa tutto quel che si è detto in proposito. Esperienze laboriose e talvolta pericolose hanno a mano a mano eliminato queste ipotesi. Oggi si parla solo di longhi, formazioni, in fondo, semplici e relativamente stabili, poiché la loro esistenza si conta a settimane: cosa, questa, quasi eccezionale. Più complicati, e capricciosi nella forma, sono i mimoidi. Non si esagera dicendo che Giese si era dedicato a questi con un vero amore, studiandoli, descrivendoli e impegnandosi fino all’ultimo per indovinarne l’origine. Con quel nome riuscì a rendere l’idea di ciò che in essi risulta più caratteristico per l’uomo: una certa predisposizione a imitare le forme circostanti, vicine o lontane. Un giorno, nelle profondità dell’oceano, una macchia circolare comincia a scurirsi, come se si ricoprisse di catrame. Dopo alcune ore si divide in strati e contemporaneamente sale verso la superficie. L’osservatore giurerebbe che si stia svolgendo una lotta violenta, poiché intorno, da ogni direzione, giungono come delle labbra chiuse, vive e muscolose, simili a crateri od onde circolari, che si uniscono, s’innalzano e ricadono. Ogni caduta di una di quelle masse, del peso di centinaia di tonnellate, è accompagnata da un boato, poiché tutto avviene su scala infinitamente grande. L’immensa massa scura è spinta verso il basso, ogni colpo successivo sembra appiattirla e scioglierla; dai singoli strati, che pendono come ali bagnate, si stacca una sorta di grappoli, che poi prendono la forma di collane e che, snodandosi, si riuniscono e scorrono verso l’alto, mentre dalle zone superiori cadono in cerchio, senza tregua, i successivi anelli d’onda. Questo gioco dura a volte giorni, a volte mesi e a volte non ha alcun seguito. Lo scrupoloso Giese chiamò questa variante «mimoide iniziale»; non si sa da dove avesse attinto la certezza che lo scopo finale di ogni cataclisma fosse il «mimoide maturo»; ciò significava una colonia di polipi con pelle scura (di solito più grandi di una città) il cui fine era l’imitazione delle forme esterne… Naturalmente non mancò un altro solarista, di nome Uyvens, che chiamò l’ultima fase «degenerata», cioè un decadimento, una necrosi, e la selva di forme nascenti un visibile indizio di rottura col rigoglio di potenza della matrice originaria. Giese comunque, come in tutte le sue descrizioni delle creazioni di Solaris, si comportava come una formica, che per nessun motivo cambia il ritmo del passo, e catalogava in bell’ordine ogni fase di apparizione di mimoide secondo il grado di perfezione raggiunta. Visto dall’alto il mimoide appare simile a una città, ma ciò è frutto d’immaginazione, provocato dalla ricerca di una qualsiasi analogia con ciò che si conosce. Quando il cielo è limpido, tutte le forme stratificate e le loro palizzate sono circondate da una massa d’aria riscaldata, che provoca un ondeggiamento e un tremolio di forme difficili da definire. La prima nube che attraversa l’azzurro (parlo d’azzurro per pura abitudine, dato che qui l’azzurro, il cielo, è color rosso ruggine oppure terribilmente bianco durante il giorno del sole azzurro) sembra costituire un richiamo. Il tegumento elastico comincia di colpo a crescere, staccandosi dalla base e impallidendo, e in capo a pochi minuti imita perfettamente la nube. Questo «oggetto» immenso manda un’ombra rossa e certi pinnacoli del mimoide si piegano, con un movimento che va sempre in direzione opposta a quello della nube vera. Penso che Giese sarebbe stato pronto a tutto, pur di capire questo fenomeno. E queste creazioni «singole» del mimoide erano ancora una bazzecola a confronto dell’attività travolgente cui era «stimolato» in presenza degli oggetti e forme di provenienza terrestre che gli si presentavano. La riproduzione di forme esterne coinvolgeva tutto ciò che si trovava in un raggio di una quindicina di chilometri. Spesso i mimoidi fornivano riproduzioni ingrandite o deformate, spesso davano luogo a caricature grottesche, soprattutto quando si trattava di macchine. Fu subito evidente che il materiale base era sempre quella pallida massa che, scagliata in aria, invece di ricadere rimaneva sospesa, collegata al fondo da una specie di cordoni ombelicali grazie ai quali si spostava pigramente, restringendosi o allargandosi, e componeva con disinvoltura disegni complessi. Un aereo, una rete o un palo venivano riprodotti con precisione. Invece i mimoidi non riproducevano esseri viventi, nemmeno le piante che gli studiosi avevano portato su Solaris per esperimento. Per contro, i manichini o le statuette, di legno o di qualsiasi altro materiale, venivano subito copiati. Qui, sia detto tra parentesi, si arrestava purtroppo l’eccezionale «docilità» dei mimoidi nei confronti degli esploratori solaristi. I mimoidi maturi avevano giornate di pigrizia durante le quali pulsavano lentamente. Questo battito non era neanche visibile a occhio nudo, poiché il ritmo di una singola fase di pulsazione avveniva in un arco di due ore: lo si era scoperto solo attraverso i filmati. In tali circostanze un mimoide, specialmente se vecchio, si prestava perfettamente a essere visitato, poiché il suo zoccolo di sostegno, immerso nell’oceano, come le protuberanze di tale base, aveva una relativa solidità che permetteva all’uomo di posarvisi con sicurezza. Si poteva stare nelle vicinanze di un mimoide anche durante le sue giornate «lavorative», ma la visibilità era ridotta a zero, visto che, come neve bianca, la materia colloidale cadeva dalle lacerazioni del tegumento sospeso sopra le protuberanze. Del resto, da vicino, le forme riprodotte dal tegumento non si potevano riconoscere, a causa delle dimensioni gigantesche, nell’ordine di grandezza delle montagne. Inoltre uno spesso strato di neve colloidale ricopriva rapidamente la base del mimoide, formando un tappeto fangoso che s’induriva solo dopo qualche ora (la crosta sopportava il peso d’un uomo pur essendo molto più leggera della pomice). Infine, senza un adeguato equipaggiamento, c’era il rischio di smarrirsi nel labirinto di strutture nodose e spaccate, simili talvolta a colonnati rattrappiti, talvolta a geyser pietrificati. Anche di giorno si rischiava di smarrirsi, perché i raggi non filtravano attraverso la superficie dove si creano in continuazione forme diverse. Nei giorni fortunati (cioè fortunati per lo studioso che si trovasse presente), l’osservazione di un mimoide produceva un’impressione indimenticabile. In quelle giornate di superproduzione esso cominciava con una straordinaria girandola creativa. Si abbandonava a variazioni sul tema di oggetti esterni, compiacendosi nel complicarli e nel dedicarsi a «prolungamenti di forme»; giocava così per ore, con gran piacere del pittore non figurativo e gran disperazione dello studioso, che invano tentava di capire i processi che si svolgevano sotto i suoi occhi. Certe volte, dall’azione dei mimoidi, uscivano semplificazioni quasi infantili, altre volte facevano sfoggio di creazioni barocche e allora tutto era all’insegna dell’elefantiasi. Specialmente i vecchi mimoidi erano capaci di creare forme buffissime; ma io, a dire il vero, non sono mai riuscito a sorriderne, quando poi le ho viste, troppo colpito dal carattere misterioso di quello spettacolo. Si poteva capire perché, nei primi anni di studio, ci si fosse gettati sui mimoidi come se costituissero i centri ideali dell’oceano di Solaris, il luogo in cui sarebbe avvenuto l’incontro delle due civiltà. Fin troppo presto, però, si dovette riconoscere che non c’era nessuna possibilità di contatto; tutto cominciava e finiva con l’imitazione delle forme, e non conduceva a nulla. Obbedendo a un latente criterio di atropo e zoomorfismo, numerosi studiosi non si stancavano di voler riconoscere, nelle creazioni dell’oceano vivente, «organi sensoriali» o anche «membra»; così appunto furono definiti per qualche tempo da certi scienziati (Maartens ed Ekkonai) quelli che Giese aveva battezzato vertebroidi e agilanti. Ma chiamare membra quelle protuberanze dell’oceano vivente proiettate a distanze di tre chilometri è quasi come dire che il terremoto sia la ginnastica della Terra. Il catalogo delle forme che si ripetono con relativa frequenza comprende circa trecento voci. Queste formazioni nascono dall’oceano così copiosamente che se ne possono riscontrare a decine e talvolta a centinaia nelle ventiquattr’ore. Secondo Giese, le formazioni più inumane in senso assoluto, intendendosi con ciò l’assenza di somiglianza con qualsiasi cosa che si trovi sulla Terra, erano i simmetriadi. Presto fu accertato con sicurezza che l’oceano non era aggressivo e che nel suo ambiente plasmatico trovava la morte solo chi se la cercava, per propria imprudenza o incoscienza (a parte gli incidenti dovuti a mancato funzionamento degli autorespiratori a ossigeno o dei condizionatori); che con un mezzo aereo si potevano attraversare il fiume di un longo o le colonne fantastiche dei vertebroidi oscillanti fra le nuvole senza correre alcun pericolo, poiché il plasma si scostava alla velocità del suono nell’atmosfera di Solaris, aprendo delle profonde gallerie, persino sotto la superficie dell’oceano (l’energia che esso usa in tali circostanze è immensa: Skrjabin l’ha calcolata, in erg, in dieci alla diciannovesima potenza). Tuttavia l’esplorazione dei simmetriadi fu intrapresa con grande circospezione e intensificando le precauzioni, che spesso si rivelarono vane. I nomi di coloro che per primi esplorarono gli abissi dei simmetriadi sono oggi noti a ogni scolaretto della Terra. La cosa veramente spaventevole di quei giganti non era il loro aspetto esteriore, che pure è da incubo. Forse l’effetto peggiore è generato dal fatto che in essi nulla è fisso e sicuro e le stesse leggi fisiche cessano di essere valide. Perciò appunto gli esploratori di simmetriadi sono stati sostenitori, più di chiunque altro, della tesi che l’oceano vivente sia dotato di ragione. I simmetriadi nascono all’improvviso. La loro nascita è simile a un’eruzione. Circa un’ora prima, l’oceano comincia a brillare violentemente, come se la sua superficie si fosse vetrificata su un’estensione di decine di chilometri quadrati. Però conserva la stessa fluidità e lo stesso ritmo di ondeggiamento. Talvolta, ma non necessariamente, il fenomeno della vetrificazione avviene nei paraggi dell’imbuto lasciato da un agitante. In capo a un’ora tutta quella superficie vetrificata salta per aria sotto forma di una portentosa vescica in cui tutto il firmamento, il sole, le nuvole e l’intero orizzonte si rispecchiano, cangiano, si rifrangono. L’abbagliante gioco di colori, in cui la luce volta a volta ondeggia e si frantuma, è una visione che non ha uguali. Gli effetti luminosi prodotti dai simmetriadi sono particolarmente violenti durante il giorno del sole azzurro o al tramonto del sole rosso. Si direbbe che il pianeta ne partorisca un altro, il quale in pochi istanti raddoppia il volume. Appena lanciato in alto dagli abissi, il globo abbagliante esplode alla sommità e si spacca a spicchi, ma non è disgregazione. Questa fase, chiamata poco felicemente «del calice», dura appena qualche secondo. Gli archi protesi al cielo della corolla membranosa si ripiegano all’interno, congiungendosi per le punte in quello spazio invisibile, dove cominciano velocemente a formare un tozzo ceppo dentro il quale avvengono centinaia di fenomeni la volta. Nel centro stesso, esplorato per la prima volta dai settanta membri della équipe di Hamalei, nasce un asse gigantesco di policristallizzazione, che è stato anche chiamato «colonna vertebrale», termine con il quale, personalmente, non concordo. In statu nascendi, l’erezione architettonica vertiginosa di questo pilastro centrale è puntellata da colonne verticali d’una gelatina acquosa che scaturiscono incessantemente da crepacci chilometrici. Durante questo processo il colosso emette un muggito prolungato e continuo, ed è circondato da schiuma nevosa, svolazzante e ribollente. A ciò seguono, dal centro verso la periferia, complicatissime rotazioni di superfici piane sulle quali si deposita a strati il materiale estensibile salito dalle profondità; contemporaneamente i predetti geyser degli abissi si consolidano in mobili colonne tentacolari che si dirigono a fasci in punti della struttura rigorosamente determinati dalla dinamica d’insieme, e che richiamano alla mente branchie embrionali alte fino al cielo, roteanti a una velocità mille volte accresciuta e percorse da filamenti di un sangue roseo e di una secrezione verde scuro, quasi nera. Da quell’istante il simmetriade comincia a manifestare la sua proprietà più straordinaria: quella di poter modellare o sospendere certe leggi fisiche. Si diceva che non esistessero due simmetriadi uguali e che la geometria di ognuno costituisse una «invenzione» dell’oceano vivente. Anzi, che il simmetriade producesse nel suo interno quelle che venivano indicate come «macchine effimere», sebbene tali creazioni non ricordassero in nulla le macchine costruite dall’uomo; si aveva però un’attività limitata, con finalità ristrette e perciò «meccaniche». Quando i geyser scaturiti dalle profondità si sono ispessiti e solidificati creando gallerie e corridoi che vanno in tutti i sensi e la «pellicola» membranosa si è fissata in un complesso inestricabile di piani, di oggetti, di pareti, allora il simmetriade giustifica il proprio nome, poiché ogni passaggio, ogni tratto, ogni rampa nell’ambito di un polo ha la propria esatta contropartita, fino nei particolari e nello stesso ordine, al polo opposto. In capo a venti o trenta minuti il gigante comincia lentamente a tuffarsi, dopo essersi inclinato talvolta fra gli otto e i dodici gradi rispetto alla verticale. Ci sono simmetriadi più o meno grandi; ma anche i nani posati nell’oceano si alzano fino a ottocento metri sopra l’orizzonte e sono visibili a molti chilometri di distanza. Il momento migliore per penetrare all’interno col minimo rischio è quando l’insieme cessa d’immergersi e contemporaneamente ritrova l’equilibrio verticale; il punto di accesso più favorevole è la parte presso la sommità. In questa calotta relativamente liscia si trova una zona perforata dalle imboccature a sifone delle celle e dei canali di cui è crivellato. Nel suo complesso tutta questa formazione rappresenta lo sviluppo tridimensionale di qualche equazione trascendente. Come ben sappiamo, per mezzo del linguaggio figurato della geometria superiore si può esprimere qualsiasi equazione e costruirne la rappresentazione spaziale con un solido corrispondente. Sotto questo profilo il simmetriade è parente del cono di Lobacevskij e delle curve negative di Riemann, ma parente molto alla lontana, a causa della sua complessità indescrivibile. Esso struttura, in un volume di alcuni chilometri cubi, il compendio del processo di sviluppo di un intero sistema matematico, e anzi di uno sviluppo a quattro dimensioni, poiché i coefficienti delle equazioni si esprimono anche in termini di tempo. Si era subito presentata l’ovvia idea che ci trovassimo in presenza di una «macchina matematica» dell’oceano vivente, creata a propria dimensione, per calcoli il cui scopo ci era ignoto. Ma questa ipotesi del Fermont non era ancora condivisa da nessuno. Come teoria, in verità, era allettante; tuttavia risultava impossibile sostenere il concetto che l’oceano vivente si dedicasse all’esame dei problemi della materia, del cosmo e dell’esistere, a furia di titaniche eruzioni in cui ogni minima particella concorresse all’espressione infinitamente complessa di un’analisi superiore. Infatti si potevano rintracciare, nel quadro del gigante, numerosi fenomeni in contrasto con questo concetto troppo semplice e anzi, per alcuni, addirittura ingenuo. Non mancarono dei tentativi di rendere comprensibili i simmetriadi, ideandone schemi divulgativi; ottenne un notevole successo l’illustrazione di Averian, che a grandi linee diceva così: immaginiamo un antichissimo edificio terrestre del tempo in cui fioriva Babilonia, ma costruito con una sostanza viva, sensibile e in evoluzione, così che la sua architettura attraversi fasi successive e assuma sotto i nostri occhi la forma di una costruzione greca e poi romanica, e le colonne s’assottiglino come steli, la volta s’alleggerisca, s’innalzi, s’aguzzi, l’arco descriva una parabola ripida, che si spezza dando l’arco acuto. E’ nato il gotico, il tempo fugge, appaiono nuove forme; l’austerità della linea scompare nell’esplodere di un’esuberanza orgiastica, e dinanzi ai nostri occhi si sfrena il barocco; così, sempre considerando il susseguirsi di mutazioni come tappe di una vita evolutiva, giungiamo infine all’architettura dell’era cosmica e forse possiamo avvicinarci alla comprensione di ciò che è un simmetriade. Tuttavia, a dispetto di qualsiasi sviluppo o perfezionamento di questa illustrazione (si è tentato di renderla visiva per mezzo dei modellini e di film), la sua inadeguatezza intrinseca sussiste, ed essa rimane una scappatoia, per non dire una truffa. I simmetriadi nulla hanno di terrestre… L’uomo è in grado di apprendere poche cose la volta; vediamo soltanto ciò che accade dinanzi a noi, qui e ora; non siamo capaci di figurarci una serie di processi che avvengono simultaneamente, per quanto siano legati o complementari gli uni agli altri. Questo vale anche per fenomeni relativamente semplici. La sorte di un uomo è significativa, quella di cento si può appena afferrare; ma la storia di mille, di un milione, propriamente parlando, non ci dice niente. Il simmetriade è il milione, anzi il miliardo, elevato all’ennesima potenza: è l’incomprensibile. Che possiamo dunque comprendere di queste innumerevoli navate, ciascuna di capacità pari a dieci unità Kronecker, che andiamo esplorando, aggrappati come formiche agli anfratti delle volte che respirano, e vedendo lo slancio verticale e l’intersecarsi reciproco delle superfici grigie opalescenti nel raggio dei nostri riflettori, e la morbidezza, la perfezione delle soluzioni istantanee…? poiché qui tutto fugge, il movimento è l’essenza stessa di queste architetture, un movimento concentrato e volto a uno scopo prefissato. Noi osserviamo solo qualche particolare dei processi, la vibrazione di una sola corda in un’orchestra sinfonica di supergiganti, e per di più sappiamo (sappiamo senza riuscire a concepirlo) che sopra e sotto di noi, in abissi vertiginosi che superano i limiti della vista e dell’immaginazione, avvengono contemporaneamente altre trasformazioni, a migliaia, a milioni, collegate fra loro, come il contrappunto lega le note. Qualcuno ha anche parlato di «sinfonia geometrica». Ma, in tal caso, noi siamo degli ascoltatori sordi. Per vedere davvero qualcosa bisognerebbe che potessimo retrocedere nello spazio, guardare da una certa distanza; invece tutto accade all’interno del simmetriade, la moltiplicazione, la valanga delle nascite di un’inaudita generazione, in cui la creazione è contemporaneamente la creatura; e nessuna è sensitiva al minimo tocco quanto il luogo in cui stiamo lo è a cambiamenti che avvengono a migliaia e a centinaia di piani lontano da noi. Qui ogni momentanea formazione con la sua bellezza, il cui compimento sfugge alla nostra vista, è tutt’insieme il mezzo e la guida della costruzione stessa; si modellano reciprocamente. Una sinfonia, sia pure; ma tale da creare e da annullare se stessa. La fine del simmetriade è orrenda. Chiunque vi abbia assistito non dimentica più d’essere stato testimone di una tragedia, se non di un assassinio. In capo a due o tre ore (il processo di riproduzione spontanea, di proliferazione esplosiva, non dura mai di più) l’oceano vivente passa all’attacco. Accade così: la superficie liscia s’increspa, dov’era la calma cominciano a ribollire i frangenti coperti di schiuma, da ogni punto dell’orizzonte accorrono a schiere concentriche le onde, come fauci, ma incomparabilmente maggiori delle labbra tumide che circondano la nascita di un mimoide. La parte immersa del simmetriade subisce una tale compressione che il colosso si impenna lentamente come sul punto di essere espulso dalla zona d’attrazione planetaria; gli strati superficiali della massa oceanica accrescono la propria attività, risalgono lungo le pareti laterali, vi si attaccano, le ricoprono solidificandosi e così chiudendo gli orifizi. Ma questo è niente al confronto di ciò che accade all’interno. All’inizio il processo creativo, l’evoluzione architettonica subiscono un attimo d’arresto e, subito dopo, un’accelerazione violenta. Il morbido fluire del compenetrarsi e piegarsi, l’innalzarsi delle pareti e delle volte, sin qui ritmico e sicuro come se dovesse durare secoli, comincia a sconquassarsi. Si ha l’impressione che, minacciato da un pericolo, il colosso si affretti per portare l’opera a compimento. Quanto più il movimento di trasformazione accelera, tanto più diventa evidente e orribile la metamorfosi del materiale da costruzione stesso e della sua dinamica. Tutto quell’insieme meraviglioso di superfici malleabili cede, si allenta, vacilla, e le forme cominciano a essere incomplete, stonate, distorte; dalle profondità invisibili sale un brontolio potente, un muggito: come un sospiro d’agonia un soffio d’aria s’ingolfa nei canali strozzati, raschiando e rombando, e le volte in rovina mandano rantoli come gole mostruose in cui le stalattiti di mucosa sono corde vocali inerti. Lo spettatore è allora colto da un torpore invincibile nonostante il movimento scatenato di una violenza crescente e di una forza distruttrice palese. Solo il ciclone che urla dalle voragini, e che attraversa migliaia di cunicoli, regge ancora in piedi l’alta struttura, che non tarda a colare come un alveare lambito dalle fiamme. Si osservano ancora gli ultimi palpiti, inerti, staccati dal resto dei movimenti, ciechi e ogni volta più deboli, fino a che, aggredito dall’esterno, il gigante frana come una montagna e sparisce, sepolto dalla stessa schiuma che aveva accompagnato la sua nascita titanica. Che cosa significa tutto ciò? Già, che cosa significa… Ricordo un gruppo di giovani in gita scolastica che, al tempo in cui ero assistente di Gibarian, venne a visitare l’Istituto di Solaristica di Aden. I ragazzi, dopo aver attraversato una sala laterale, che era la biblioteca, furono condotti nell’aula magna, dalle pareti ricoperte in gran parte di cassetti pieni di microfilm. C’era lì una piccola documentazione d’interni di simmetriadi da gran tempo scomparsi, costituita da più di novemila… non già disegni e rilievi, ma bobine cinematografiche. Ed ecco che una ragazzina rotondetta di circa quindici anni, con gli occhiali e dall’aria intelligente, salta fuori con la domanda: «A che serve?». Nel silenzio imbarazzato che seguì, l’insegnante accompagnatrice diede un’occhiataccia all’alunna impertinente; ma nessuno dei solaristi (io fra gli altri) che scortavano il gruppo trovò una risposta. Infatti i simmetriadi non si ripetono, né si ripetono i fenomeni che li riguardano. A volte l’aria fa da isolatore d’ogni suono. A volte il coefficiente di rifrazione aumenta o diminuisce. In certi punti appaiono delle pulsazioni, con variazioni ritmiche di peso, quasi che il simmetriade avesse un cuore gravitante. A volte le bussole giroscopiche degli scienziati impazziscono, gli strati di ionizzazione aumentano o diminuiscono… si potrebbe continuare con gli esempi all’infinito. Del resto, se mai il segreto dei simmetriadi venisse svelato, rimarrebbero pur sempre gli asimmetriadi: questi nascono nello stesso modo, ma con altro fine, e di essi non si può vedere altro che fremiti, scintillii e splendori; si sa soltanto che sono la sede di processi vertiginosi, a una velocità che sfida le leggi fisiche, i cosiddetti «fenomeni quantici giganti». Le loro analogie matematiche con certi modelli di atomo sono comunque talmente instabili e impalpabili che certi studiosi hanno ritenuto che questa fosse una caratteristica marginale o casuale. Gli asimmetriadi vivono incomparabilmente meno degli altri, appena qualche minuto, e hanno una fine ancora peggiore. Con l’uragano, che li invade e li fa scoppiare, si riempiono a velocità incredibile di un liquido che gorgoglia orrendamente sotto l’involucro, e tutto sommerge in un lurido ribollire; poi l’esplosione, accompagnata da un’eruzione vulcanica fangosa, proietta una colonna di macerie che ricadono a pioggia sulla superficie dell’oceano sconvolto. Capita di vedere una parte di queste macerie sotto forma di ossa infangate e frammenti cartilaginosi appiattiti e rinsecchiti, sparsi in mezzo alle onde a distanza di parecchi chilometri dal luogo dell’esplosione. Gruppo a parte formano le creazioni che si staccano completamente dall’oceano vivente per un certo periodo. E’ stato quasi sempre impossibile identificarle e di rado si sono potute osservare. La prima volta che si trovarono dei frammenti di questi «indipendenti» furono identificati, a torto, come poi si vide, come esseri viventi nelle profondità oceaniche. Certe volte, ma raramente, si riuscivano a vedere sugli scogli delle isole branchi di foche che riposavano prendendo il sole e che poi scivolavano per entrare in mare, diventando tutt’uno con esso. Si continuava, insomma, a girare nel circolo chiuso dell’immaginazione umana, fin dal primo contatto… Le spedizioni hanno fatto centinaia di chilometri nelle profondità dei simmetriadi, lasciando apparecchi di registrazione, macchine cinematografiche automatiche; gli occhi artificiali dei satelliti hanno registrato lo spuntare dei mimoidi e dei longhi, il loro maturare e la loro morte. Le biblioteche si riempivano, si ingrossavano gli archivi, e in cambio di questo bisognava pagare un prezzo terribilmente alto. Settecentodiciotto uomini erano morti durante i cataclismi per non essersi ritirati in tempo dai colossi che erano condannati alla distruzione; centosei perirono in una sola catastrofe, rimasta famosa poiché vi trovò la morte lo stesso Giese, che aveva allora settant’anni. In quell’occasione la spedizione stava studiando un simmetriade, chiaramente caratterizzato come tale, che fu distrutto invece con un processo tipico degli asimmetriadi. Settantanove uomini, con macchine e apparecchi, vestiti di tute corazzate, furono inghiottiti, nel giro di pochi secondi, da un’eruzione di fango attaccaticcio; gli altri ventisette furono colti dalle eruzioni mentre volavano intorno alla massa con elicotteri e aerei. Quel luogo, quell’incrocio del 42esimo parallelo e dell’89esimo meridiano, è indicato sulle carte come «Eruzione dei Centosei». Ma il punto esiste solo sulle carte; la superficie dell’oceano non ne serba traccia. Fu allora che, per la prima volta nella storia delle ricerche solaristiche, si levarono voci a chiedere che si ricorresse alle esplosioni termonucleari. Sarebbe stato peggio di una vendetta: volevamo distruggere ciò che non capivamo. Tsanken, il sostituto di Giese nel gruppo di riserva, che si era salvato solo grazie a uno sbaglio (il suo relais automatico aveva fornito una falsa segnalazione sul luogo nel quale si trovavano gli esploratori del simmetriade) vagava nel suo apparecchio sopra l’oceano e arrivò sul luogo della catastrofe pochi minuti dopo l’esplosione, di cui riuscì a vedere il fungo nero. Nel momento in cui si stava decidendo in merito al ricorso a un’esplosione termonucleare, minacciò di far saltare la stazione assieme ai diciotto superstiti che vi si erano rifugiati. Ufficialmente non è mai stato riconosciuto che questo ultimatum abbia determinato l’esito delle votazioni, ma è da credere che fosse così. I tempi delle spedizioni tanto numerose erano finiti. La costruzione della stazione stessa, condotta dai satelliti, era stata un’impresa tecnica colossale, della quale la Terra poteva essere orgogliosa; ma l’oceano, nel giro di pochi secondi, era capace di crearne un’altra un milione di volte più grande. Fu costruita una specie di disco, di dodici metri di diametro, a quattro piani nel mezzo e due ai margini. Sospesa, da cinquecento a millecinquecento metri sopra l’oceano, possedeva come forza motrice l’energia dei gravitatori, che compensano la forza d’attrazione. Era dotata di tutte le apparecchiature proprie alle normali stazioni e ai grandi satelliti di altri pianeti, ma attrezzata con antenne radar speciali, sensibili a ogni eventuale cambiamento sulla superficie dell’oceano; i radar facevano scattare un’energia supplementare che spediva il disco nella stratosfera al primo segno della nascita di una nuova creazione vivente. Adesso la stazione era in realtà disabitata. Da quando, per motivi che non avevo potuto ancora sapere, avevano rinchiuso gli automi nei magazzini interni, si poteva circolare per tutti i corridoi senza incontrare nessuno. Come in un relitto vagante, nel quale le macchine erano sopravvissute alla morte dell’equipaggio. Quando rimisi a posto sul ripiano il nono volume della monografia di Giese, mi sembrò di sentire tremare la moquette sotto i piedi. Mi fermai di botto, ma la vibrazione non si ripeté. La biblioteca era perfettamente isolata dal resto della costruzione, le vibrazioni potevano avere una sola spiegazione. Qualche razzo era partito dalla stazione. Questo pensiero mi riportò alla realtà. Non ero del tutto deciso a uscire in volo, come voleva Sartorius. Comportandomi come se accettassi pienamente il suo piano, mi limitavo a rimandare la crisi; ero sicuro del fatto che sarei arrivato a uno scontro, poiché ero intenzionato a fare di tutto per salvare Harey. Il punto stava nel sapere se Sartorius avesse una possibilità di successo. La sua superiorità rispetto a me era immensa. Come fisico conosceva il problema dieci volte meglio di me. Io, paradossalmente, potevo solo contare sulla perfezione delle soluzioni che trovava l’oceano. Durante l’ora seguente lavorai assiduamente sui microfilm, cercando qualcosa che potessi capire nel mare di quella matematica, in cui mi mancava qualsiasi punto di riferimento e del cui linguaggio si serviva la fisica dei processi neutrinici. Inizialmente mi sembrò un’impresa disperata, poiché di teorie sui campi neutrinici ce n’erano cinque, chiaro segno che nessuna era perfetta. Infine riuscii a trovare qualcosa di promettente. Mentre ricopiavo le formule, udii bussare. Mi avvicinai alla porta e l’aprii, coprendo la fessura col mio corpo. Vidi la faccia sudata di Snaut. Il corridoio dietro a lui era vuoto. — Ah, sei tu — dissi. — Entra. — Sì, sono io — rispose. La voce era rauca. Sotto gli occhi arrossati aveva profonde occhiaie. Indossava un grembiule antiraggi, sotto il quale spuntavano i soliti pantaloni. I suoi occhi percorsero tutta la sala, immersa in una luce uniforme, e si bloccarono quando, in fondo, vicino a una poltrona, vide Harey. Ci scambiammo uno sguardo, io socchiusi gli occhi, e in quel momento egli si inchinò. Assumendo un tono amichevole, dissi: — Questo è il dottor Snaut, Harey; Snaut, ti presento… mia moglie. — Sono… un componente dell’equipaggio poco visibile e perciò… — l’intervallo si prolungò pericolosamente — non ho avuto sinora il piacere di conoscerla… — Harey gli sorrise e gli diede la mano, che egli strinse, mi parve, con stupore. Sbatté gli occhi alcune volte e rimase fermo a fissarla, ma lo presi sottobraccio. — Mi scusi — le disse. — Volevo parlare con te, Kelvin… — Certo — risposi con scioltezza; tutto suonava come una commedia da due soldi, ma non c’erano altre soluzioni. — Harey, amore, non ti disturbare. Dobbiamo parlare, col dottore, delle nostre noiose questioni… Lo pilotai, a braccetto, verso una poltrona all’altro lato della sala. Harey sedette su quella dove ero seduto prima io, ma la spinse in modo tale che alzando la testa dal libro ci poteva vedere. — Che c’è di nuovo? — domandai piano. — Ho divorziato — rispose con un sussurro sibilato. Pochi giorni prima mi sarei messo a ridere se mi avessero raccontato questa storia e l’inizio di questa conversazione; ma nella stazione il mio senso dell’umorismo era sfumato. — Da ieri ho vissuto delle ore che contano per anni, Kelvin — aggiunse. — Per parecchi anni. E tu? — Niente… — risposi dopo un momento, poiché non sapevo che cosa dirgli. Gli volevo bene, ma sentivo che dovevo stare in guardia con lui, o meglio dinanzi al motivo per il quale era venuto da me. — Niente? — ripeté con lo stesso mio tono. — Ma non dovevi…? — Che cosa? — finsi di non capire. Socchiuse gli occhi arrossati e, sporgendosi al punto che sentii il calore del suo alito, sussurrò: — Affondiamo, Kelvin. Con Sartorius non posso comunicare, so solo ciò che ti ho detto, ciò che mi ha detto dopo la nostra piccola riunione… — Ha staccato il videotelefono? — domandai. — No. Dev’essere stato un corto circuito. Mi sembra che l’abbia fatto apposta, o… — fece un movimento con il pugno come se avesse rotto qualcosa. Lo guardai senza dire una parola. L’angolo sinistro delle labbra gli si alzò in una specie di antipatico sorriso. — Kelvin, sono venuto, perché… — s’interruppe. — Che cosa hai intenzione di fare? — Ti riferisci alla tua lettera? — risposi adagio. — Posso farlo, non vedo il motivo di rifiutarmi. Per questo sono venuto qui. Volevo sapere… — No — tagliò. — Non si tratta di questo… — No? — dissi, fingendo stupore. — Allora ti ascolto. — Sartorius — disse dopo un momento. — Mi sembra che abbia trovato la strada… Sai. — Non mi toglieva gli occhi di dosso. Io sedevo tranquillo, cercando di assumere un’espressione indifferente. — In primo luogo, c’è stata quella faccenda dei raggi X. Quell’esperimento che hanno fatto con Gibarian, ricordi? E’ possibile che qualche modificazione… — Quale? — Mandavano soltanto dei fasci di raggi nell’oceano e ne modulavano l’intensità secondo schemi variabili. — Sì, lo so. Nilin l’aveva già fatto. E anche altri. — Sì. Ma avevano usato delle radiazioni leggere. Queste invece erano dure, perché si è spedito nell’oceano tutto ciò di cui si disponeva, tutta la potenza. — Possono esserci degli strascichi spiacevoli — osservai. — La violazione della convenzione dei Quattro e dell’ONU… — Kelvin… non fingere. Ormai non ha nessuna importanza. Gibarian è morto. — Ah, Sartorius vuole scaricare tutta la colpa su Gibarian? — Non lo so. Non ne ho parlato con lui. Non è importante. Sartorius pensa che, poiché l’ospite appare sempre e solo dopo che uno si sveglia, significa che l’oceano si occupa soprattutto del nostro sonno e che ricava i suoi modelli di riproduzione mentre dormiamo. Perciò si comporta così. Allora Sartorius vuole spedirgli la nostra realtà, i pensieri da svegli, capisci? — In che modo? Per posta? — Spiritoso. Questo fascio di raggi sarà modulato con le correnti cerebrali di uno di noi. Cominciavo a vedere più chiaro. — Ah — dissi. — Quel qualcuno sarei io, vero? — Sì. Lui ha pensato a te. — Ma com’è gentile! — E tu, che cosa ne dici? Rimasi in silenzio. Senza dir niente, guardò Harey che era immersa nella lettura, poi distolse gli occhi per osservare la mia faccia. Sentivo di impallidire. Non riuscii a dominarmi. — Ah, è così…? — dissi. Scossi le spalle. — Quest’idea di spedire con i raggi X delle prediche sulla grandezza dell’uomo mi sembra comica. A te no? — Dici sul serio? — Sì. — Va bene — concluse, e sorrise come se avessi soddisfatto la sua richiesta. — Allora sei contrario all’idea di Sartorius. Non capivo ancora come fosse successo, ma nel suo sguardo lessi che mi aveva portato dove aveva voluto. Rimasi in silenzio; che altro potevo fare? — Benissimo — disse. — C’è un altro progetto. Ricostruire l’apparecchio di Roche. — L’annichilitore? — Sì. Sartorius ha già fatto dei calcoli preliminari. E’ possibile. Non occorrerà usare molta forza. L’apparecchio resterà in funzione per tutta la giornata e per un tempo indefinito creando degli anticampi. — As… Aspetta! Come te lo immagini? — Molto semplice. Sarà un anticampo neutrinico. La materia ordinaria rimarrà senza alterazioni. Saranno annichilite soltanto le strutture di neutrini, capisci? — Sorrideva soddisfatto. Io stavo seduto a bocca aperta. Lentamente, smise di sorridere. Mi guardò interrogativo, con la fronte corrugata, e attese un istante, per dire: — Dunque, il primo progetto, il progetto «Pensiero» è eliminato. E il secondo? Se n’è già occupato Sartorius. Lo chiameremo «Liberazione». Chiusi gli occhi per un momento e di colpo mi decisi. Snaut non era un fisico. Sartorius aveva staccato il videotelefono. Benissimo. — Io lo chiamerei piuttosto in altro modo. Lo chiamerei «Mattatoio»… — dissi scandendo le parole. — Hai già fatto il macellaio. Vuoi dire di no? Ma adesso sarà una cosa completamente diversa. Niente più ospiti, niente più creazioni F. Niente. Nel momento stesso in cui appare la materializzazione, avviene lo sfacelo. — Non ci siamo capiti — risposi, scuotendo il capo con un sorriso e augurandomi che sembrasse abbastanza naturale. — Non si tratta di scrupoli morali, ma solo d’istinto di conservazione. Non ho voglia di morire, Snaut. — Cosa…? Era rimasto scosso. Mi guardava con sospetto. Tolsi dalla mia tasca il pezzo di carta sgualcito contenente le formule. — Anch’io ho pensato a questo. Ti meravigli? Eppure sono stato io ad avanzare l’ipotesi dei neutrini. Forse no? Guarda. Si possono creare degli anticampi. Per la materia comune non è dannoso, infatti. Ma nel momento della destabilizzazione, quando la struttura di neutrini si disintegra, noi liberiamo l’energia che ne costituiva i legami. Prendendo, per un chilogrammo di massa in riposo, 10 all’ottava erg, otteniamo, per una creazione F, 5 alla settima moltiplicato per 10 all’ottava; sai che cosa vuoi dire? E’ l’equivalente di una piccola carica di uranio che esplode dentro la stazione. — Che vai dicendo! Ma… Sartorius ne avrà pure tenuto conto… — Non è detto — negai con un sorriso ironico. — Vedi, Sartorius è della scuola di Frazer e Caiolli. Secondo loro, tutta l’energia dei legami, nel momento della disgregazione, si libera sotto forma di raggi luminosi. Sarebbe semplicemente un lampo, molto forte, certo, ma non distruttore. Esistono tuttavia delle altre ipotesi, delle altre teorie sui campi neutrinici. Secondo Cayatt, secondo Avalov, secondo Sion, lo spettro dell’emissione è molto più ampio e, al punto massimo, giunge ai raggi gamma duri. E’ bello che Sartorius abbia fede nei suoi maestri e nelle loro teorie, ma ce ne sono altre, Snaut. E sai che cosa ti dico? — e continuai, vedendo che le mie parole lo impressionavano. — Bisogna anche prendere in considerazione l’oceano. Se ha fatto ciò che ha fatto, sicuramente ha scelto il metodo migliore. In altre parole: la sua azione mi sembra un argomento che opta per la seconda scuola. E contro Sartorius. — Dammi quel foglio, Kelvin… — Glielo diedi. Inclinò la testa cercando di leggere i miei scarabocchi. — Che cos’è? — chiese indicando con il dito. Presi il foglio. — Questo? Il tensore di trasformazione dei campi. — Me lo dai? — A che ti serve? — domandai. Sapevo quel che avrebbe risposto. — Devo mostrarlo a Sartorius… — Come vuoi — risposi con indifferenza. — Te lo posso dare. Ma, vedi, nessuno ha provato sperimentalmente; non si conoscevano ancora queste strutture. Lui crede in Frazer e io ho fatto i calcoli secondo Sion. Ti risponderà che non sono un fisico, e che non lo era neanche Sion. Almeno a suo modo di vedere. Ma la questione è aperta. E io non ho voglia di discutere, poiché nella discussione Sartorius mi batterà, con sua gran soddisfazione. Posso convincere te, ma non lui. E. non ci proverò. — Allora, che cosa vuoi fare? E’ già all’opera… — disse Snaut con voce atona. Stava curvo e tutta la sua vivacità era sparita. Non sapevo se mi credesse, ma non m’importava. Risposi piano: — Quel che fa un uomo di fronte a una minaccia di morte. — Proverò a mettermi in contatto con lui. Forse ha in mente qualche impianto di sicurezza — borbottò Snaut. Mi guardò negli occhi: — Ascoltami, e se…? Il primo progetto. Che ne dici? Sartorius sarebbe d’accordo. E’ a ogni modo una possibilità… — E tu ci credi? — No — rispose immediatamente. — Ma cosa rischiamo? Non volevo acconsentire troppo in fretta, desideravo guadagnare tempo. Snaut diventava mio complice nel gioco di procrastinare. — Ci penserò — dissi. — Bene, me ne vado — borbottò, alzandosi. Tutte le giunture scricchiolarono, quando si alzò dalla poltrona. — Allora ti lascerai fare l’encefalogramma? — domandò, passando la mano sulla superficie del grembiule, come se cercasse di togliere una invisibile macchia. — Bene — dissi. Senza guardare Harey (che osservava questa scena, in silenzio, col libro sulle ginocchia), si avvicinò alla porta. Quando questa si chiuse, mi alzai. Aprii il foglio che tenevo in mano. Le formule erano autentiche. Però non so se Sion sarebbe stato d’accordo con me sul modo in cui le avevo sviluppate. Credo di no. Trasalii. Harey si era avvicinata da dietro e mi toccava il braccio. — Chris! — Che c’è, amore? — Chi era? — Te l’ho detto, il dottor Snaut. — Che tipo è? — Lo conosco poco. Perché me lo chiedi? — Mi guardava in un modo… — Sicuramente gli sei piaciuta. — No — scosse la testa. — Non era uno sguardo del genere. Mi guardava, come… come se… — Ebbe un brivido, alzò gli occhi e subito li riabbassò. — Andiamo da qualche altra parte… 9. OSSIGENO LIQUIDO Ero sdraiato nella stanza buia, intorpidito, fissando da non so quanto tempo il quadrante luminoso del mio orologio da polso. Sentivo il mio respiro e provavo una strana sensazione perché tutto, il barlume delle cifre verdastre e il mio stesso stupore, rimaneva immerso nell’indifferenza, che attribuivo alla stanchezza. Mi girai su un fianco, il letto era stranamente largo, mi mancava qualche cosa. Trattenni il respiro. Mi avvolse il silenzio. Mi impietrii. Non mi giungeva alcun rumore. Harey? Perché non sentivo il suo respiro? Incominciai a cercarla stendendo le braccia lungo il lenzuolo: ero solo. «Harey!» avrei voluto chiamare, ma udii dei passi. Giungeva qualcuno, grande e pesante, come… — Gibarian? — dissi tranquillamente. — Sì, sono io. Non accendere la luce. — No? — Non occorre. E sarà meglio per noi due. — Ma non sei morto? — Non importa. Ma tu, riconosci la mia voce? — Sì. Perché l’hai fatto? — Dovevo. Sei arrivato quattro giorni troppo tardi. Se tu fossi arrivato prima, forse non sarebbe stato necessario, ma non ti fare delle colpe. Non rimpiango nulla. — Sei qui veramente? — Ah, pensi di sognare, come l’hai pensato per Harey? — Dov’è lei? — Perché dovrei saperlo? — Me lo immagino. — Tientelo per te. Diciamo che sono qua al suo posto. — Ma io voglio che ci sia lei. — Perché? — Senti, lo sai che veramente non sei tu, ma io? — No. Sono veramente io. Se tu fossi pedante potresti dire che sono di nuovo io. Ma non sprechiamo il tempo in chiacchiere. — Te ne andrai? — Sì. — E lei tornerà? — T’importa? Che cosa rappresenta, per te? — E’ affar mio. — Se hai paura di lei! — No. — Ti fa schifo… — Che cosa ti aspetti da me? — Impietosisciti su te stesso, non su di lei. Lei avrà sempre i suoi vent’anni. Non fingere di non saperlo! Di colpo, non so assolutamente perché, mi calmai. Lo ascoltavo con una grande tranquillità. Mi sembrava che fosse più vicino a me, ai piedi del letto, ma nel buio non vedevo niente. — Che cosa vuoi? — chiesi piano. Il tono della mia voce lo lasciò interdetto. Rimasi in silenzio per un momento. — Sartorius ha convinto Snaut che l’hai ingannato. Adesso cercano d’ingannare te. Fingendo di montare un Roentgen, costruiscono l’annichilitore del campo. — Dov’è lei? — domandai. — Non hai sentito quel che ti ho detto? Ti ho avvisato! — Lei dov’è? — Non lo so. Stai attento: avrai bisogno di un’arma. Non puoi contare su nessuno. — Posso contare su Harey — dissi. Udii un’eco breve e soffocata. Rideva. — Naturalmente, puoi farlo. Fino a un certo punto. Infine puoi sempre ricorrere al mio stesso sistema. — Tu non sei Gibarian. — Ma guarda! E chi sono? Il tuo sogno? — No, un loro fantoccio. Ma tu non lo sai. — E come fai a sapere chi sei tu? Questa domanda mi fece riflettere. Volevo alzarmi, ma non potevo. Gibarian mi diceva ancora qualcosa. Non capivo le sue parole, ne udivo soltanto il suono, lottavo con la fiacchezza del mio corpo. Ancora una volta, con grande sforzo, mi dibattei e mi svegliai. Boccheggiavo come un pesce semiasfissiato. Era stato solo un sogno. Un incubo. Ma, un momento… un dilemma, che non riusciamo a risolvere. Perseguitiamo noi stessi. Il pianeta ha solo applicato una specie di amplificatore selettivo dei nostri pensieri. Il fatto di cercare una motivazione a questi fenomeni è antropomorfismo. Dove non c’è gente, lì non ci sono motivazioni accessibili per l’essere umano. Per organizzare e proseguire un piano di ricerca bisogna annullare sia i propri pensieri sia la loro realizzazione materiale. La prima ipotesi esula dai nostri poteri. La seconda somiglia troppo a un omicidio. Ascoltavo nelle tenebre quella voce ritmica, che riconobbi immediatamente: era la voce di Gibarian. Stesi il braccio, il letto era vuoto. «Mi sono svegliato per entrare nel sogno successivo» pensai. — Gibarian…? — dissi. La voce s’interruppe a metà di una parola. Qualcosa si mosse leggermente, sentii un soffio d’aria vicino alla faccia. — Di’ un po’, Gibarian — brontolai sbadigliando — intendi perseguitarmi da un sonno all’altro…? Udii un fruscio vicino a me. — Gibarian! — ripetei più forte. Le molle del letto scricchiolarono. — Chris… sono io — sentii sussurrare vicino a me. — Sei tu, Harey… E Gibarian? — Chris, Chris… Non mi… hai detto tu, che è morto…? — Nel sonno può vivere — dissi lentamente. Non ero molto sicuro che fosse stato un sogno. — Mi ha parlato. E’ stato qui — aggiunsi. Avevo molto sonno. «Se sono addormentato» pensai stupidamente «allora tanto vale dormire.» Toccai con le labbra il fresco braccio di Harey e mi misi più comodo. Mi rispose qualcosa. Sprofondai nell’oblio. Al mattino, nella stanza illuminata di rosso, mi ricordai dell’accaduto. La conversazione con Gibarian l’avevo sognata. Ma poi? Avevo udito la sua voce, avrei potuto giurarlo, ma non ricordavo bene che cosa avesse detto. Non sembrava un discorso ma una lezione. Lezione…? Harey si stava lavando. Sentivo il rumore dell’acqua nel bagno. Guardai sotto il letto, dove avevo messo, qualche giorno prima, il registratore. Non c’era. — Harey! — chiamai. La sua faccia gocciolante d’acqua si affacciò da dietro l’armadio. — Non hai visto per caso il registratore sotto il letto? Piccolo, da tasca… — C’erano vari oggetti. Li ho messi tutti là… — additò lo scaffale accanto all’armadietto dei medicinali e sparì di nuovo. Saltai fuori dal letto, ma le mie ricerche furono vane. — Devi averlo veduto — dissi, quando tornò nella stanza. Non mi rispose. Intanto si pettinava specchiandosi. Solo allora mi accorsi che era pallida e nei suoi occhi, quando si incrociavano con i miei, c’era un’interrogazione sospettosa. — Harey — insistetti ancora, cocciutamente. — Sul ripiano il registratore non c’è. — Non hai niente di più importante da dirmi? — Scusami — mormorai. — Hai ragione, non è importante. Mancava solo che ci mettessimo a litigare! Andammo a fare colazione. Harey quel giorno faceva tutto in modo diverso dal solito, ma non riuscivo a definire quella differenza. Si guardava intorno, a volte non ascoltava quel che le dicevo, come se fosse intontita. Una sola volta, quando alzò lo sguardo, vidi che i suoi occhi luccicavano. — Che cos’hai? — abbassai la voce fino a farla diventare un sussurro. — Piangi? — Oh, lasciami! Non sono vere lacrime — borbottò. Non avrei dovuto lasciar cadere il discorso, ma avevo una paura maledetta delle «parole sincere». E avevo per la mente altri problemi. Sebbene sapessi che il complotto di Snaut e Sartorius era stato un sogno, tuttavia mi chiedevo se nella stazione avrei trovato delle armi. Che cosa ne avrei fatto, non lo immaginavo, ma dovevano esserci. Dissi ad Harey che dovevo guardare nei magazzini. Mi seguì in silenzio. Perlustrai le casse, cercai nei contenitori, e quando scesi in fondo non riuscii a resistere alla voglia di guardare dentro la cella frigorifera. Non volevo tuttavia che Harey entrasse, perciò mi limitai a scostare la porta e spiare all’interno. Il sudario ricopriva la forma allungata ma, dal punto in cui mi trovavo, non potevo vedere se la nera fosse lì, dove l’avevo vista la volta precedente. Mi sembrò che il suo posto fosse vuoto. Non c’era niente che facesse al caso mio, e passavo da un deposito all’altro, di pessimo umore, quando mi accorsi che Harey era sparita. Mi raggiunse comunque subito: si era trattenuta nel corridoio. Il solo fatto che avesse voluto stare lontano da me per un momento avrebbe dovuto insospettirmi. Continuavo ad agire come se fossi adirato (con chi, poi, non si sapeva), comportandomi come un cretino. Mi era venuto il mal di testa e, arrabbiato come un demonio, misi sottosopra l’armadietto dei medicinali. Niente compresse antinevralgiche. Non volevo tornare nella sala operatoria. Quel giorno ero stranamente svogliato. Harey mi seguiva come un’ombra, e a volte spariva, non so dove, non ci badavo. Al pomeriggio, dopo pranzo (lei non aveva mangiato niente e io, col mal di testa, non avevo nemmeno provato a invogliarla), sedette al mio fianco e cominciò a giocherellare con la manica della tuta. — Che c’è? — borbottai macchinalmente. Avevo voglia di andare al piano superiore perché mi sembrava che le condutture portassero un’eco leggera, come se qualcuno picchiettasse, segno forse che Sartorius stava armeggiando con l’impianto ad alta tensione. La voglia mi passò di colpo al pensiero che ci sarei dovuto andare con Harey, la presenza della quale era ancora accettabile nella biblioteca, ma là tra le macchine poteva dare a Snaut il pretesto per qualche commento intempestivo. — Chris — sussurrò — come andiamo? Involontariamente sospirai, non si poteva dire che quello fosse per me un giorno fortunato… — Meglio di così… Che cosa vuoi sapere? — Vorrei parlarti. — Avanti, ti ascolto. — Non così. — Come? Te l’ho detto, mi fa male la testa, ho un mucchio di problemi… — Un po’ di buona volontà, Chris. Mi sforzai di sorridere. Fu probabilmente un misero sorriso. — Sì, amore. Dimmi. — Mi dirai la verità? Alzai il sopracciglio. Non mi piaceva, un inizio simile. — Perché dovrei mentirti? — Puoi avere i tuoi motivi. Seri. Ma se vuoi, che… be’, sai… non mentirmi. Ero in silenzio. — Io ti dirò qualcosa, e tu mi dirai qualcosa a tua volta. Va bene? Ma sarà vera. Deve esserlo, assolutamente. Non la guardavo negli occhi, sebbene cercasse il mio sguardo. Fingevo di non accorgermene. — Ti ho già detto che non so da dove vengo. Forse tu lo sai. No, non voglio dire questo. Forse non lo sai. Ma se lo sai e non me lo puoi dire, adesso, me lo dirai un giorno, più tardi? Non sarà il peggio. A ogni modo, dammi questa possibilità. Avevo l’impressione che una corrente gelata mi attraversasse tutto il corpo. — Bambina, che cosa stai dicendo? Che possibilità…? — borbottavo. — Chris, chiunque io sia, senz’altro non sono una bambina. Me l’hai promesso: rispondimi. Quel «chiunque io sia» mi prese alla gola in modo tale che riuscii solamente a guardarla e a negare stupidamente con la testa, come se non volessi neanche ascoltare. — Ti prego, non devi dirmi tutto. Mi basta che tu mi dica che non puoi. — Non nascondo niente… — risposi raucamente. — Benissimo — fece alzandosi. Avrei voluto dire qualcosa. Sentivo che non potevamo fermarci a questo. Ma tutte le parole mi si strozzavano in gola. — Harey… Era ferma davanti alla finestra e mi voltava le spalle. L’oceano azzurro e vuoto si stendeva davanti al cielo. — Harey, se pensi che… Harey, lo sai che ti amo… — Me? Mi avvicinai a lei. Tentai di abbracciarla. Si liberò e allontanò la mia mano. — Sei così buono… — disse. — Mi ami? Avrei preferito che tu mi picchiassi! — Harey, amore! — No, no. Sta’ zitto. Si avvicinò al tavolo e cominciò a raccogliere i piatti. Guardavo il vuoto azzurro. Il sole tramontava e l’ombra della stazione si muoveva ritmicamente sulle onde. Un piatto sfuggì dalle mani di Harey e cadde sul pavimento. L’acqua scorreva nel lavandino. La ruggine sul cielo passava a un colore oro o rosso sporco. Se avessi saputo che cosa fare, oh, se l’avessi saputo! Cadde un profondo silenzio. Harey si fermò dietro di me. — No, non ti girare — disse abbassando la voce, fino a un mormorio. — Non è colpa tua, Chris. Lo so, non ti preoccupare. Stesi la mano. Scappò in fondo alla cucina e, sollevando una pila di piatti, disse: — Peccato che siano infrangibili. Se potessi romperli tutti lo farei! Per un momento pensai che li avrebbe buttati per terra, ma mi guardò e sorrise: — Non temere, non farò scene. Mi svegliai nel cuore della notte e di colpo sedetti sul letto, pronto e vigile; la stanza era buia, attraverso le porte accostate proveniva una debole luce dal corridoio. Si udiva un debole fischio e questa eco aumentava insieme a colpi attutiti, come di qualcosa di pesante che picchiasse violentemente contro le pareti. «Un meteorite!» pensai. «Ha attraversato la corazza.» — Chi è là?! — Il rantolo continuava. Mi scossi di colpo. Era la stazione, quella, non un razzo; e quell’eco tremenda… Uscii nel corridoio. La porta del piccolo laboratorio era aperta, c’era la luce accesa. Entrai. Mi avvolse un freddo intenso. La cabina era zeppa di vapore che trasformava il respiro in neve. C’era un accappatoio, pieno di fiocchi di questa neve, che copriva un corpo che si dibatteva sul pavimento. Riuscii appena a vederla, in mezzo a quella nube; mi buttai su di lei, la presi in braccio, l’accappatoio mi scottava le mani, lei rantolava. Uscii nel corridoio, oltrepassai parecchie porte. Non sentivo più il freddo, solo il suo respiro, che usciva dalla bocca sotto forma di nube, bruciandomi la nuca come una fiamma. La deposi sul tavolo, tagliai l’accappatoio sul petto e per un secondo guardai la sua faccia tremante; il sangue sulla bocca si era solidificato, le labbra erano nere, sulla lingua brillavano dei cristalli di ghiaccio… L’ossigeno liquido. Nel laboratorio c’era dell’ossigeno liquido nelle bottiglie Dewar. Nell’alzarla avevo udito uno scricchiolio di vetro infranto. Quanto ne aveva ingoiato? Non aveva importanza. Una volta ingoiato, l’ossigeno liquido brucia più di un acido; si era bruciata trachea, gola e polmoni. Il suo respiro, secco e raschiante come fogli di carta lacerata, si affievoliva. Occhi chiusi. Agonia. Guardai gli armadi, pieni di strumenti e medicinali. Tracheotomia? Intubazione? I polmoni non c’erano più! Erano bruciati. Medicine? Quante medicine! File di vasi colorati e scatolette sui ripiani. Il suo rantolo riempiva la sala, la nebbia saliva continuamente dalla sua bocca aperta. Cuscinetti termoelettrici… Incominciai a cercarli, ma cambiai parere, saltai verso un altro scaffale, gettavo per aria le scatole di fiale. Ora, una siringa… Dov’erano le siringhe? Eccone una, bisognava sterilizzarla. Incominciai a battere furiosamente contro il coperchio dello sterilizzatore, ma non lo sentivo, come attraverso mani informicolite. Il rantolo divenne più forte. Corsi verso di lei. Aveva gli occhi aperti. — Harey! Non era neanche un sussurro. Non riuscivo a far uscire la voce. Avevo davanti a me una faccia sconosciuta, come di gesso. Guardavo Harey. Le costole si muovevano sotto la pelle, i capelli, bagnati dalla neve che si scioglieva, erano scompigliati sul posatesta. Mi osservava. — Harey! Non riuscivo a dire nient’altro. Rimasi fermo come un tronco, con le braccia di legno. Le gambe, le labbra, le sopracciglia incominciavano a bruciarmi sempre di più, ma quasi non lo sentivo. Una goccia di sangue si sciolse e colò sulla sua guancia, disegnando una riga trasversale. La lingua tremò e scomparve. Rantolava ancora. Le presi il polso, non batteva più. Aprii l’accappatoio e appoggiai l’orecchio contro il corpo gelido per udire il cuore. Attraverso un rumore come di un incendio udii il battito, un galoppo, troppo veloce per poter contare i colpi. Ero fermo lì, chino, con gli occhi chiusi. Qualcosa toccò la mia testa. M’aveva messo le dita tra i capelli. La guardai negli occhi. — Chris — mormorò. Le presi la mano; mi rispose con una stretta che quasi mi stritolò. Mi sorprese la lucentezza sul suo viso, il bianco degli occhi brillò; lei si schiarì la gola e tutto il corpo era percorso da convulsioni, non riuscivo a tenerla sul tavolo. Mi sfuggì e picchiò la testa contro il margine di una bacinella di porcellana. La sorreggevo e la spingevo contro il tavolo, ma mi sfuggiva. Fui subito inzuppato di sudore, con le gambe come di gomma. Quando le convulsioni diminuirono, provai a farla sdraiare. Boccheggiò, cercando aria. In mezzo a quell’orribile volto tumefatto si aprirono gli occhi di Harey. — Chris — ringhiò. — Quanto… quanto dura, Chris? Incominciava a soffocare, una spuma rosea le salì alle labbra, di nuovo le vennero le convulsioni. La trattenevo col resto delle mie forze. Cadde sulla schiena con tale impeto che le batterono i denti, e ansimava. — No, no, no — sillabava dopo ogni respiro, e ognuno sembrava fosse l’ultimo. Ma le convulsioni tornarono ancora una volta; nei brevi intervalli inspirava l’aria con uno sforzo che faceva sporgere tutte le costole. Infine le palpebre mostrarono gli occhi, occhi spenti. Divenne fredda. Pensai che fosse la fine. Non provai nemmeno a toglierle la schiuma rosa dalle labbra, rimasi fermo davanti a lei, chino. Udivo, molto lontano, squillare un campanello. Aspettavo il suo ultimo respiro; allora sarei caduto sfinito sul pavimento; ma lei continuava a respirare, senza più rantolare, ogni volta più adagio, e la punta del seno, che fino a poco prima era quasi fermo, incominciava a muoversi ritmicamente seguendo il battito del cuore. Rimanevo in piedi a osservarla, la sua faccia diventava più rosea. Non capivo ancora niente. Le mani mi si bagnarono di sudore e mi sembrava di diventare sordo, come se qualcosa di morbido, di elastico riempisse le mie orecchie, continuavo a sentire quel campanello che suonava come se fosse incantato. Alzò le palpebre e i nostri occhi si incontrarono. «Harey» volevo dire, ma mi mancò la voce; il mio volto era impietrito, una maschera pesante. Potevo solo guardarla. I suoi occhi perlustrarono la stanza, scosse la testa. C’era un silenzio assoluto. Dietro di me, in un mondo lontano ed estraneo, l’acqua cadeva ritmicamente da un rubinetto non chiuso. Lei si sollevò su un gomito. Sedette. Retrocessi. Mi osservava. — Cosa — disse, — cosa…? No… non ci sono riuscita? Perché…? Perché mi guardi così…? — E di colpo urlò: — Perché mi guardi così! — Cadde il silenzio. Guardò le sue mani. Mosse le dita. — Sono io…? — domandò. — Harey — dissi senza fiato, muovendo solo le labbra. Alzò la testa. — Harey…? — ripeté. Slittò lentamente verso il pavimento e si mise in piedi. Perse l’equilibrio, poi lo ritrovò, fece qualche passo. Faceva tutto meccanicamente, mi guardava come se non mi vedesse. — Harey? — ripeté lentamente ancora una volta. — Ma… io… non sono Harey. Chi sono…? Harey? E tu? Tu? — Improvvisamente gli occhi si allargarono, si accesero e sorrise. Lo stupore apparve sulla sua faccia. — Forse anche tu… Chris, forse anche tu? In silenzio mi accovacciai appoggiato all’armadio. Pieno di paura, aspettavo. Abbassò le braccia. — No — disse. — No, perché hai paura. Senti, io non posso. Non si può. Non ho visto nulla. Io, adesso, io continuo a non capire, è mai possibile? Io… — stringeva i pugni delle sue mani bianche — non so niente, al di fuori di… di Harey! Pensi che finga? No, non fingo, parola d’onore, non fingo. Le ultime parole quasi le urlò. Cadde sul pavimento, piangendo. Quel suo grido mi strinse il cuore. Con un salto la raggiunsi e l’abbracciai. Si difendeva, mi respingeva, gemendo senza lacrime, urlando: — Lasciami! Lasciami! Ti faccio schifo. Lo so! Non ti voglio così! Non voglio! Lo vedi che non sono io, non sono io, non io, non… — Taci! — gridai scuotendola; entrambi urlavamo come incoscienti, in ginocchio. Harey sbatteva la testa contro le mie braccia. Io la stringevo a me con tutte le mie forze. A un tratto ci fermammo ansimando pesantemente. L’acqua gocciolava ritmicamente dal rubinetto. — Chris… — mormorò, mettendo la sua faccia tra le mie mani. — Dimmi, che cosa devo fare per sparire? Chris… — Piantala! — gridai. Alzò il viso. Mi osservava attentamente. — Come…? Anche tu non lo sai? Non riesci a fare niente? Niente! — Harey… abbi pietà… — Volevo… hai visto. No. No. Lasciami, non voglio che tu mi tocchi! Ti faccio schifo. — Non è vero! — Bugiardo. Ti faccio schifo. Io… da sola… anche. Se potessi. Se solo potessi… — Ti uccideresti. — Sì. — Ma io non voglio, capisci? Non voglio che tu muoia. Voglio che tu stia con me e non ho bisogno d’altro! Gli immensi occhi mi assorbivano. — Come menti… — mi disse piano. La lasciai e mi alzai dalla posizione in ginocchio. — Dimmi che cosa devo fare perché tu mi creda. Ti giuro che non mento. Che è vero. Che non ne esiste un’altra. — Non puoi dire la verità. Non sono Harey. — E chi sei? Rimase in silenzio per un attimo. Il mento le tremò, abbassando la testa sussurrò: — Harey. Ma… so che non è vero. Un’altra, non me… amavi tempo fa. — Sì — dissi. — Ma ciò che fu non esiste più. E’ morto. Amo te, qua. Lo capisci? Mosse la testa. — Sei buono. Non pensare che non abbia valutato ciò che hai fatto per me. Hai fatto tutto come meglio hai potuto. Ma non c’è rimedio. Quando, tre giorni fa, ero al fianco del tuo letto e aspettavo che tu ti svegliassi, non sapevo niente di niente. Mi sembra che sia passato tanto tempo. Mi comportavo come se fossi priva di facoltà mentali, avevo come della nebbia nella testa. Non ricordavo che cosa fosse accaduto prima, e non mi stupivo di niente, come dopo un’anestesia o dopo una lunga malattia. Pensavo quasi di essere stata ammalata, ma tu non me l’hai voluto dire. Poi certi fatti mi hanno dato da pensare. Sai che cosa. Qualcosa mi è passato per la testa dopo il tuo discorso in biblioteca, con quel tale… come si chiamava… Snaut. E poiché non mi volevi spiegare, mi sono alzata una notte ad ascoltare il registratore. Ti ho mentito solamente una volta, poiché sono stata io a nasconderlo dopo, Chris. Quello che parlava, come si chiamava? — Gibarian. — Sì, Gibarian. Allora ho capito tutto. O meglio, ancora oggi non capisco molto. Non sapevo che non posso… che non sono… che tutto non ha fine. Di questo non ha parlato. Forse ne ha parlato, ma ti sei svegliato e ho fermato il nastro. Ne ho ascoltato abbastanza, però, per capire che non sono un essere umano, solo uno strumento. — Che cosa stai dicendo? — Sì. Per indagare e conoscere le tue reazioni, o qualcosa del genere. Ognuno di voi ha una creatura come me. Si basa su un ricordo o una fantasia repressi. Tu lo sai meglio di me. Lui parlava di cose terribili, incredibili… se non fosse che tutto corrispondeva, non ci avrei creduto! — Che cosa corrispondeva? — Be’, che non ho bisogno di dormire, e che devo essere continuamente al tuo fianco. Ieri mattina pensavo ancora che tu mi odiassi, ed ero infelice per questo. Mio Dio, com’ero stupida! Ma dimmi, dimmi, come potevo immaginarmelo? Lui non odiava quella… quella creatura; ma come parlava di lei! Allora ho capito che, qualunque cosa io faccia, sarà lo stesso; voglia o non voglia, per te dev’essere una tortura. Forse qualcosa di peggio, poiché gli strumenti di tortura sono passivi e innocenti, come le pietre che possono cadere e ammazzare. Ma uno strumento di tortura che ti ama e che vuole il tuo bene… Veramente non posso immaginarmelo. Avrei voluto dirti quel che ho provato nel momento in cui ascoltavo il nastro, quando ho capito. Forse ti sarebbe servito. Ho provato a scriverlo. — Per questo hai acceso la luce? — domandai, riuscendo con difficoltà a emettere suoni dalla gola stretta. — Sì. Ma non ci sono riuscita. Cercavo, in me, sai… la «diversità», quel qualcosa di diverso… Ero completamente impazzita, ti assicuro: mi è sembrato, per un po’, di non avere carne sotto la pelle, di avere qualcosa d’altro; di essere solo, solo superficie. Per ingannarti. Capisci? — Capisco. — Quando si rimane sdraiati per ore, di notte, si può arrivare lontano col pensiero, e in strani luoghi, sai… — So… — Sentivo il mio cuore e mi ricordavo che tu mi avevi controllato il sangue. Com’è il mio sangue, dimmelo, dimmi la verità. Adesso puoi. — Uguale al mio… — Veramente? — Ti giuro. — Cosa significa? Sai, mi sono detta che se c’è una cosa nascosta dentro di me, può essere… molto piccola. Comunque non sapevo dov’era. Avevo davvero paura di ciò che volevo fare, e forse cercavo una scappatoia. Chris, se abbiamo lo stesso sangue… se è così come dici, allora… No, non è possibile. Non sarei ancora viva, vero? Significa che c’è qualcosa. Ma dove? Forse nella testa? Io ragiono in modo molto semplice… Se pensassi con quello, dovrei sapere tutto. Non amarti. Fingere, sapendo di fingere… Chris, per favore, dimmi tutto quello che sai, forse riuscirò a fare qualcosa. — Che vuoi fare? Rimaneva in silenzio. — Vuoi morire? — Penso di sì. Regnò di nuovo il silenzio. Ero in piedi, davanti a lei che, accovacciata, guardava in giro per la camera come se cercasse tra gli utensili smaltati qualcosa di cui aveva bisogno, ma che non riusciva a trovare. — Harey, posso dirti una cosa? — Aspettava. — E’ vero che non sei uguale a me. Ma non significa che sei qualcosa di peggio, al contrario. Puoi pensare, in proposito, quello che vuoi; ma grazie a questa «cosa» non sei morta. Un sorriso infantile e triste apparve sul suo viso. — Vuoi dire, significa… che sono immortale? — Non lo so. A ogni modo, sei molto meno mortale di me. — E’ terribile — sussurrò. — Forse meno di quel che ti sembra. — Ma non mi invidi… — Harey, forse è questione di… destino. Sì, così lo chiamerei. Sai, qui alla stazione, il tuo destino è non meno imprevedibile di quello di ognuno di noi. Gli altri continueranno l’esperimento di Gibarian e può capitare di tutto… — O niente. — O niente, e ti dico che preferirei se fosse niente; non per paura, sebbene questa abbia qualche peso, non lo so, ma perché non darà un risultato. Di questo sono certo, sicuro. — Non darà niente, e perché? Il risultato riguarda quell’… oceano? — rabbrividì. — Sì. O meglio, il contatto con l’oceano. Penso sia molto semplice. Un contatto significa scambio di esperienze, di concetti, forse di risultati, di particolari stati, di fatti… Ma se non fosse possibile alcuno scambio? Se l’elefante non è un grosso batterio, l’oceano non può essere un grosso cervello. Da entrambe le parti si possono prendere delle iniziative. In effetti adesso ho dinanzi a me un esempio di queste iniziative, cerco di spiegarti che mi sei più cara dei dodici anni di vita sacrificati a studiare Solaris, e che vorrei averti sempre. Forse la tua apparizione vuol essere una tortura, forse un favore, forse una ricerca come col microscopio. Forse una prova di amicizia, forse un modo di assestarmi un colpo a tradimento, forse una beffa? Forse tutto questo insieme, o anche qualcosa di diverso. Ma che c’importa delle intenzioni dei nostri genitori, per dissimili che siano? Mi dirai magari che da queste intenzioni dipende il nostro futuro, e posso essere d’accordo. Non so predire ciò che avverrà. Come te. Non ti posso assicurare che ti amerò sempre. Sono successe tante cose, può accadere anche questa. Oppure domani diventerò una medusa verde. Non dipende da noi. Per quanto dipende da noi, rimarremo insieme. Ti pare poco? — Ascolta… — disse. — Un’altra domanda. Io… le somiglio? — Mi sembravi identica — dissi. — Adesso non lo so. — Ma come…? — Si alzò da terra e mi guardò con gli occhi sbarrati. — L’hai cancellata. — Sei sicuro che non lei, e invece me? Me…? — Sì. Tu. Non lo so. Forse, se tu fossi lei, non avrei potuto amarti. — Perché? — Perché ho fatto qualcosa di orrendo. — A lei? — Sì. Quando eravamo… — Non dirlo. — Perché? — Perché, così, sai che non sono lei. 10. IL COLLOQUIO Il giorno seguente, rientrando in cabina dopo colazione, trovai una lettera di Snaut sul tavolo sotto la finestra. Diceva che Sartorius aveva sospeso il lavoro all’annichilitore e preparava degli esperimenti per sottoporre l’oceano a radiazioni dure. — Amore — dissi — devo andare da Snaut. Il sole rosso che si avviava al tramonto incendiava i vetri della finestra e tagliava la camera in due. Noi stavamo nella zona di ombra bluastra. Fuori dei suoi confini tutto era color rame, da far pensare che un libro, cadendo dallo scaffale, avrebbe mandato un rintocco. — Si tratta del famoso esperimento, però non so come fare. Preferirei, capisci… — Non scusarti, Chris. Se non durasse troppo a lungo… Vorrei tanto… — Durerà un po’ — dissi. — E se tu venissi con me, ma restando nel corridoio? — Bene. Ma se poi non resisto? — Perché credi questo? — domandai, aggiungendo subito: — Non te lo chiedo per curiosità, capisci; ma forse, indagando un po’ in te stessa, puoi trovare il modo di dominarti. — E’ paura — disse. Era impallidita. — Non so dirti neanch’io che cosa temo, poiché non temo niente, in realtà; però… però mi smarrisco. All’ultimo istante provo una vergogna che non ti dico. Poi non più. Per questo pensavo di essere malata… — concluse piano, con un brivido. — Forse è così soltanto in questa maledetta stazione — dissi. — Farò di tutto perché possiamo andarcene al più presto. — Credi che sia possibile? — Spalancò gli occhi. — Perché no? In fin dei conti, non sono mica alla catena, qua… Dipende anche da quel che riuscirò a combinare con Snaut. Cosa ne pensi, saresti capace di stare sola un po’ a lungo? — Forse — disse lentamente, abbassando la testa. — Se sento la tua voce, me la caverò. — Preferirei che tu non sentissi di che cosa si parla. No, non ho niente da nasconderti; ma non so, non posso sapere quel che dirà Snaut. — Taci. Capisco. Mi metterò a una certa distanza, così da udire solo il suono della tua voce. Mi basta. — Adesso vado a telefonargli da lì, dal laboratorio. Lascerò la porta aperta. Annuì. Attraversando la parete di raggi rossi del sole uscii nel corridoio; il brusco passaggio mi fece vedere tutto nero, nonostante le lampade fossero accese. La porta del piccolo laboratorio era aperta. I frammenti di vetro da thermos della bottiglia Dewar, brillanti come specchi, sotto la fila di grossi contenitori di ossigeno liquido, erano l’unica traccia degli avvenimenti notturni. Il piccolo video si accese quando alzai il ricevitore e composi il numero della cabina radio. Poi il velo di luce azzurrina che copriva l’interno del vetro opaco si diradò e Snaut, appollaiato di sbieco su un alto sgabello, mi guardò dritto negli occhi. — Salve — disse. — Ho letto il biglietto. Vorrei parlarti. Posso venire? — Puoi. Subito? — Sì. — Scusa, vieni… in compagnia? — No. Affacciato di sghembo nel vetro convesso, col volto magro e abbronzato e la fronte solcata da rughe profonde, sembrava un pesce venuto a curiosare dietro l’oblò di un acquario. Mi diede un’occhiata molto significativa. — Be’, be’ — disse. — Ti aspetto. — Possiamo andare, amore — cominciai a dire con una vivacità non troppo naturale, entrando nella cabina e oltrepassando la striscia di luce rossa dietro la quale intravedevo la figura di Harey. Mi mancò la voce. Harey era seduta nella poltrona, con le braccia passate sotto i braccioli. Sia che avesse udito troppo tardi i miei passi, sia che non fosse stata in grado di sciogliere abbastanza rapidamente quella orribile contrazione, fatto sta che per un secondo ebbi modo di vederla alle prese con quella forza incomprensibile nascosta in lei, e un’ira cieca e furibonda, venata di compassione, mi strinse il cuore. Percorremmo il lungo corridoio, oltrepassammo le varie sezioni verniciate con colori diversi, testimonianza dell’intento degli architetti di allietare e alleviare la nostra clausura in quel guscio corazzato. Vidi da lontano la porta socchiusa della cabina radio. Lasciava trapelare il sole dall’interno, e lì una lunga striscia rossa cadeva sullo sfondo del corridoio. La indicai con lo sguardo ad Harey, che non cercò neanche di sorridere; durante tutto il tragitto avevo visto che si preparava alla lotta con se stessa, quasi raccogliendo le forze, e aveva un visino pallido, smunto. A quindici passi dalla porta si fermò e mi voltai verso di lei, ma mi sospinse con la punta delle dita e dovetti proseguire. Di colpo i miei piani, Snaut, l’esperimento, l’intera stazione, tutto mi parve ridicolo di fronte al tormento che lei stava per affrontare. Mi sentivo come un vero manigoldo, e stavo per tornare indietro, ma l’ombra di un uomo s’interpose nella striscia di sole sulla parete del corridoio. Mi affrettai a entrare nella cabina. Snaut era vicino alla soglia, come se stesse per venirmi incontro. Aveva proprio alle spalle il sole rosso, che aureolava di luce purpurea i suoi capelli bianchi. Ci guardammo per un po’ senza aprire bocca. Esaminava con attenzione il mio viso. Io invece non vedevo la sua espressione, che spariva nel barbaglio proveniente dalla finestra. Gli girai attorno, andando ad appoggiarmi a un leggio dal quale spuntavano i microfoni. Ruotò su se stesso, là dov’era, lentamente, seguendomi con gli occhi e torcendo come sempre la bocca in quel modo che una volta pareva un sorriso e un’altra una smorfia di stanchezza. Senza staccarmi lo sguardo di dosso, e facendosi strada tra i mucchi di pezzi di ricambio radio, di attrezzi, di accumulatori termici accatastati alla meglio su entrambi i lati, raggiunse il grande armadio metallico a parete, tirò a sé uno sgabello e si sedette con le spalle appoggiate all’anta verniciata. Il mutismo che avevamo mantenuto fino a quel momento stava diventando molto strano. Ascoltavo intensamente, concentrando l’attenzione sul silenzio che regnava nel corridoio dov’era rimasta Harey, ma non mi giungeva alcun rumore. — Quando sarete pronti? — domandai. — Si potrebbe cominciare anche oggi, ma questa registrazione richiederà un po’ di tempo. — La registrazione? Vuoi dire l’encefalogramma? — Be’, hai acconsentito, no? E allora? — Lasciò la frase in sospeso. — No, niente. — Parla. Ti ascolto — disse Snaut, quando il silenzio cominciò di nuovo a prolungarsi. — Lei sa… di te. — Avevo abbassato la voce, quasi a un sussurro. Inarcò le sopracciglia. — Sì? Avevo l’impressione che non fosse affatto sorpreso. Allora, perché fingeva lo stupore? Per un istante mi passò la voglia di confidarmi, ma mi costrinsi. «In mancanza d’altro, deve regnare almeno la lealtà» pensai. — Ha cominciato a sospettare dopo il nostro colloquio in biblioteca; mi ha spiato, ha messo insieme le cose, poi ha trovato il registratore di Gibarian e ha ascoltato il nastro… Non cambiò posizione, sempre appoggiato all’armadio, ma gli occhi ebbero un barlume. In piedi davanti al leggio avevo di fronte la porta socchiusa sul corridoio. Abbassai ancora la voce: — Questa notte, mentre dormivo, ha tentato di uccidersi. Con l’ossigeno liquido… Un fruscio, come di carte smosse da una corrente d’aria. Mi irrigidii cercando di sentire quel che accadeva nel corridoio; la fonte del rumore si era fatta più vicina. Uno scricchiolio, come se ci fosse un topo… Un topo! Assurdo. Non c’erano topi, alla stazione. Con la coda dell’occhio lo osservavo, seduto. — Ti ascolto — disse tranquillamente. — Beninteso, non c’è riuscita… A ogni modo, sa chi è. — Perché me lo dici? — domandò di colpo. Non trovavo una risposta. — Voglio che tu sappia la notizia… che tu sappia com’è la situazione — borbottai. — Ti avevo avvisato. — Vuoi dire che sapevi? — Alzai, senza volerlo, la voce. — Naturalmente no. Ma ti ho spiegato com’è. Ogni «ospite», quando appare, è poco più di un fantoccio che, a parte un miscuglio di ricordi e di immagini, presi in prestito dal suo… Adamo, è quasi completamente… vuoto. Quanto più rimane con te, tanto più si umanizza. Fino a un certo limite, capisci, diventa indipendente. Perciò, più dura, più è difficile poi… — troncò la frase. Mi guardò di sottecchi, e aggiunse come se lo facesse suo malgrado: — Lei sa tutto? — Sì, te l’ho già detto. — Tutto? Che è già stata qui, e che tu… — No! Sorrise. — Kelvin, senti, se sei a questo punto… che cosa pensi di fare? Lasciare la stazione? — Sì. — Con lei? — Sì. Tacque, certo meditando la risposta; tuttavia c’era dell’altro, nel suo silenzio… Ma che cosa? Si udì di nuovo lo scricchiolio, come se fosse lì, dietro una parete sottilissima. Snaut si mosse sullo sgabello. — Benissimo — disse. — Perché mi guardi? Pensavi che ti avrei messo i bastoni fra le ruote? Puoi fare quel che vuoi, mio caro. Sarebbe molto buffo che per di più, qui, cominciassimo a imporre delle costrizioni! Non ho alcuna intenzione di convincerti, posso solo dirti che in una situazione inumana cerchi di conservare un comportamento umano. Forse è bello, certamente inutile. Comunque, non sono persuaso che sia bello. Da quando in qua la stupidità è bella? Ma il punto non è questo. Tu rinunci a ulteriori esperimenti, e vuoi andartene, portandotela via. Sì? — Sì. — Ma anche questo è… un esperimento. Ci hai pensato? — Che intendi dire? Se lei… potrà…? Se è insieme a me, non vedo… — Parlavo sempre più adagio, e infine m’interruppi. Snaut sospirò leggermente. — Stiamo tutti facendo la politica dello struzzo, qui. Ma sappiamolo, almeno, e non recitiamo la commedia della nobiltà. — Non recito niente. — Bene, non volevo offenderti. Ritiro quel che ho detto sulla nobiltà, ma la politica dello struzzo rimane valida. Tu la pratichi in una forma particolarmente pericolosa. Menti a te stesso, a lei, e viceversa. Conosci le condizioni stabilizzatrici di una struttura costituita da neutrini? — No, e neanche tu. Nessuno. — Verissimo. Ma una cosa sappiamo, che è una struttura instabile e può sussistere solo in virtù di un continuo afflusso d’energia. Lo so da Sartorius. Questa energia crea un campo rotatorio stabilizzante. Ora: questi campi sono esterni, rispetto all’ ospite, oppure la fonte si trova nel suo corpo? Afferri la differenza? — Sì — dissi lentamente. — Se è esterno, allora, lei… lei… la… — Allora, allontanandosi da Solaris, la struttura si disintegra — concluse in mia vece. — Non possiamo prevederlo, ma hai già fatto l’esperimento. Quel piccolo razzo che hai lanciato… Continua a circolare, sai. A tempo perso, ho anche calcolato i dati del suo movimento. Puoi volare, entrare in orbita e accertare che ne è stato della… passeggera. — Sei impazzito! — sussurrai. — Credi? Be’, e se… lo richiamassimo indietro, questo razzo? Si può farlo. E’ telecomandato. Possiamo toglierlo dall’orbita e… — Piantala! — No anche a questo? C’è un altro modo, molto semplice. Non occorre nemmeno che il razzo atterri alla stazione. Continui pure a girare. Possiamo collegarci con lei via radio. Se è viva, risponderà e… — Ma… ma l’ossigeno è esaurito da un pezzo! — balbettai. — Forse può sopravvivere senza ossigeno. Proviamo? — Snaut… Snaut… — Kelvin… Kelvin… — mi fece il verso, irosamente. — Cerca un po’ di riflettere, o che razza d’uomo sei? Chi vuoi far contento? Chi vuoi salvare? Lei? Chi dei due? Questo o quella? Ti manca il coraggio per entrambe le cose? Lo vedi tu stesso dove ti porta tutto ciò. Te lo ripeto per l’ultima volta: la situazione, qui, è amorale. Udii di nuovo lo scricchiolio, come se qualcuno grattasse con l’unghia sulla parete. Non so perché, m’invase una calma pigra, apatica, e mi parve di vedere attraverso un binocolo alla rovescia tutta la situazione, lui, me: piccoli, un po’ comici, del tutto privi d’importanza. — Bene, allora — dissi. — Che dovrei fare, secondo te? Toglierla di mezzo? Domani torna uguale, no? E dopodomani ricominciare? E così ogni giorno? Per quanto tempo? Perché? Che vantaggio me ne verrà? E a te? A Sartorius? Alla stazione? — No, prima rispondimi. Parti con lei e sarai testimone della sua, diciamo così, metamorfosi. Dopo qualche minuto avrai dinanzi… — Be’, che cosa? — dissi ironicamente. — Un mostro, un demonio? O che? — No, un’agonia. Pura e semplice. Davvero li hai creduti immortali? Ti assicuro che muoiono… Che farai allora? Tornerai a fare… rifornimento? — Sta’ zitto! — gridai, chiudendo il pugno. Mi osservava a occhi chiusi con indulgente scherno. — Ah, dovrei stare zitto. Sai, al tuo posto taglierei corto questo colloquio. Hai di meglio da fare, per esempio vendicarti fustigando l’oceano con le verghe. Che cosa credi? Che quando tu… — Snaut fece un beffardo gesto d’addio con la mano e alzò la testa verso il soffitto, come seguendo una forma che sparisse in lontananza —… sei un mascalzone? E lo sei meno, così? Sorridere quando preferiresti urlare, mostrare gioia e calma quando ti morderesti le dita, lo chiami essere meno mascalzone? E se qui è impossibile non esserlo? Che fai, allora? Allora te la prendi con Snaut, che è colpevole di tutto, vero? Tutto sommato sei un idiota, mio caro. — Parli per conto tuo — dissi con la testa bassa. — Io… l’amo. — Chi? Il suo ricordo. — No, lei. Ti ho detto quel che ha tentato di fare. Neanche un essere umano… autentico avrebbe agito così. — Tu stesso confermi; dicendo… — Non giocare sulle parole. — Bene. Dunque lei ti ama a tal punto. E tu vuoi amarla. Non è lo stesso. — Ti sbagli. — Kelvin, mi spiace, ma sei stato tu ad avviare il discorso sui tuoi problemi intimi. Non ami. Ami. Lei è pronta a dare la vita. Tu anche. Molto commovente, molto bello, sublime, tutto quel che vuoi. Ma per tutto ciò, qui, non c’è posto. Semplicemente non c’è. Capisci? No, non lo vuoi capire. Per l’azione di forze sulle quali non abbiamo alcun potere, sei preso in un processo ciclico di cui lei è una parte. Una fase. Un ritmo ricorrente. Se fosse… se ti perseguitasse una megera pronta a fare qualsiasi cosa per te, la toglieresti di mezzo senza batter ciglio, vero? — Vero. — Perciò, forse appunto perciò, essa non è una megera. Per questo motivo, ti senti le mani legate? Quindi è appunto così, per legarti le mani. — E’ soltanto un’ipotesi di più fra milioni di altre nelle biblioteche. — Bene. Sei stato tu a cominciare. Ricorda solo che lei è fondamentalmente uno specchio che riflette una parte del tuo cervello. E’ meravigliosa perché lo è il tuo ricordo. Tu hai fornito la ricetta. Un processo ciclico, non dimenticarlo! — Dunque, cosa vuoi da me? Che la… che la tolga di mezzo? Te l’ho già chiesto: perché dovrei farlo? Non mi hai risposto. — Allora ti risponderò. Non ho sollecitato io questo colloquio. Non ho cacciato il naso nelle tue faccende. Non ti ordino niente e non ti vieto niente, non lo farei neanche potendo. Sei stato tu a venire e a spiattellare tutto, lo sai il perché? No? Per liberartene. Per scaricartene. Conosco questo peso, mio caro! Sì, sì, non interrompermi adesso! Io non ti ostacolo in nulla, ma tu vuoi che io ti ostacoli. Saresti felice se mi mettessi di mezzo, così potresti rompermi la faccia, così almeno saresti alle prese con un uomo fatto della stessa carne e dello stesso sangue, e allora ti sentiresti uomo anche tu. Invece… non ne hai l’occasione, e perciò discuti con me… o meglio, con te stesso. Manca solo che tu mi dica che ti torceresti dal dolore se lei sparisse tutt’a un tratto… no, non dirmelo. — Be’, sai! Sono venuto per pura lealtà a dirti che intendo abbandonare la stazione con lei. — Era un modo, a dire il vero un po’ fiacco, di contrattaccare. — Molto probabilmente non cambierai parere. Ho messo bocca nella questione solo con la speranza di aiutarti a non cadere da un’altezza troppo grande. Potresti farti male, non credi…? Domattina verso le nove, da Sartorius… Verrai? — Da Sartorius? — commentai stupito. — Mi hai detto che non fa entrare nessuno e non si può nemmeno telefonargli. — Probabilmente si è cavato d’impaccio in qualche modo. Fra noi non parliamo mai dell’argomento, sai. Con te è… diverso. Be’. Verrai, domattina? — Verrò — mormorai. Guardavo Snaut. Con aria indifferente teneva la mano sinistra infilata dietro l’anta. Che era socchiusa: da quando? Forse da un po’, ma preso in quegli orribili discorsi non me n’ero accorto. Il gesto era innaturale… Come se… nascondesse qualcosa. O qualcuno lo tenesse per mano. Mi inumidii le labbra. — Snaut, che cosa… — Esci — disse piano, molto tranquillamente. — Esci. Andai fuori, accompagnato dal riverbero del crepuscolo rosso, e richiusi la porta alle mie spalle. Harey, a dieci passi di distanza, era seduta sul pavimento contro la stessa parete. Nello scorgermi, si alzò di scatto. — Hai visto? — disse, e le brillavano gli occhi. — Ci sono riuscita, Chris… sono così contenta. Forse… migliorerà sempre di più… — Ma sì, certo — risposi distrattamente, e mentre tornavamo indietro continuai a rompermi il capo a proposito di quello stupido armadio. Dunque… dunque Snaut nascondeva lì… e tutti quei discorsi… Le guance mi cominciavano a bruciare talmente che le sfregai. Mio Dio, che assurdità! E che cosa ne avevo ricavato in conclusione? Un bel niente? Ah, sì, l’indomani mattina… Mi colse di colpo la paura, esattamente come la notte prima. Il mio encefalogramma. La registrazione completa di tutti i miei processi cerebrali, trasportata dalle vibrazioni di un fascio di raggi, sarebbe stata spedita laggiù. Negli abissi di quel mostro smisurato e sconfinato. Come aveva detto Snaut? «Soffriresti in modo orribile se fosse tolta di mezzo, vero…?» L’encefalogramma è una registrazione completa. Anche dei processi inconsci. «Se ora mi auguro che si tolga di mezzo, sparisce? Ma perché, allora, sarei così ansioso che sopravviva a questa orribile prova? Si può essere responsabili del proprio inconscio? Se io non lo sono, allora chi…? Che idiozia! Perché diavolo ho acconsentito a lasciare che proprio io, io… Ho modo di esaminare, prima, la registrazione, naturalmente; ma non di decifrarla. Nessuno è in grado di farlo. Gli specialisti riconoscono ciò che si nasconde nel paziente, ma solo a grandi linee: possono dire, per esempio, che è assorto nella soluzione di un problema matematico, ma non quale esso sia. Affermano che è impossibile, perché l’encefalogramma riproduce alla rinfusa una quantità di processi che si svolgono contemporaneamente e di cui solo una parte ha un «substrato» psichico… e il subconscio… Rifiutano addirittura di parlarne; come potrebbero dunque decifrare i ricordi altrui, repressi oppure no…? Ma perché tanta paura? «Proprio stamane dicevo ad Harey che l’esperimento non avrà alcun esito. E’ ovvio; se i nostri neurofisiologi non sono capaci di decifrare la registrazione, come potrebbe questo gigante fluido e senza fondo, nero e alieno… «Però è entrato, a mia insaputa, dentro di me, esplorando la mia memoria e individuando quell’atomo che ne è il punto più dolente. Impossibile dubitarne. Senza ausili di sorta, senza ‘raggi vettori’. Ha attraversato la doppia corazza ermetica, l’impenetrabile fasciame della stazione, nel suo interno ha individuato il mio corpo e se n’è andato col bottino…» — Chris? — Sommessamente, Harey si fece udire. Stavo davanti alla finestra, con lo sguardo nel vuoto, fissando la notte che avanzava. A questa latitudine un velo delicato offuscava un po’ le stelle: uno strato molto sottile e uniforme di nubi così alte che il sole, dagli abissi oltre l’orizzonte, impregnava di un debole riflesso color rosa argento. «… Se poi sparisce, ciò vorrà dire che l’ho voluto. Che l’ho uccisa. Non andarci? Non possono costringermi. Ma che cosa dirò? Questo no. Non posso. Sì, bisogna fingere. Bisogna mentire, ancora e sempre. Sì, esistono in me pensieri, intenzioni, speranze tremende, fantastiche, micidiali, e non ne so nulla. L’uomo si è mosso per andare alla scoperta di altri mondi, di altre civiltà, senza avere perlustrato a fondo, dentro di sé, i cortiletti, i camini, i pozzi, le porte sbarrate. Tradirla… per vergogna? Tradirla solo perché mi manca il coraggio?» — Chris… — sussurrò Harey, ancora più piano di prima. Finsi di non udire, di non essermi accorto che si era avvicinata silenziosamente. In quel momento volevo essere solo. Dovevo essere solo. Non mi ero ancora deciso ad alcuna risoluzione, non avevo raggiunto alcuna conclusione. Immobile, lì, guardavo fisso il cielo invaso dalla notte, le stelle che erano come larve delle stelle terrestri e il vuoto in cui si era dissolto il corso precedente dei pensieri. Cresceva dentro di me, in sua vece, la muta e indifferente certezza di essermi già avviato verso quel luogo inaccessibile e di non avere nemmeno la forza di disprezzarmi. 11. I SAPIENTI — Chris, è per quell’esperimento? Quando parlò, trasalii. Da molte ore giacevo nelle tenebre senza dormire, senza udire nemmeno il suo respiro, e, smarrito nel confuso labirinto dei pensieri notturni quasi involontari, col loro allettamento di nuove dimensioni e nuovi significati, l’avevo dimenticata. — Che… come hai fatto a sapere che non dormivo…? — domandai. C’era della paura nella mia voce. — Dal tuo modo di respirare — disse piano, come scusandosi. — Non ti avrei disturbato… se non puoi parlarmi, non parlare… — Ma perché non dovrei? Sì, è per l’esperimento. Hai indovinato. — Che cosa si aspettano? — Non lo sanno neanche loro. Qualcosa. Qualsiasi cosa. Questa non è l’operazione «Pensiero», ma «Disperazione». Occorrerebbe che uno avesse il coraggio di assumersi la responsabilità della decisione. Ma questo tipo di coraggio, per gli altri, è semplice vigliaccheria, una ritirata, capisci, una rinuncia, una fuga, cose indegne dell’uomo. Come se fosse degno dell’uomo annaspare, impantanarsi e affogare in quel che non capisce e che non capirà mai! M’interruppi, ma prima ancora di riprendere fiato una nuova ondata di rabbia mi fece salire alle labbra altre parole: — Naturalmente, non mancano mai quelli che hanno il bernoccolo della pratica. Hanno sostenuto che anche se non si riesce a stabilire il contatto, lo studio di questo plasma, di queste pazzesche città viventi che emergono un giorno solo per poi sparire, ci rivela i segreti della materia; quasi non sapessero che è un modo d’ingannare se stessi, aggirandosi in mezzo a una biblioteca piena di libri scritti in una lingua incomprensibile, che si distinguono solo per il diverso colore delle rilegature… — Non ci sono degli altri pianeti come questo? — Forse. Non si sa… noi ne conosciamo uno solo. E comunque è un pianeta estremamente raro. Non come la Terra. Noi siamo comuni, siamo l’erba dell’universo, e di questa qualità comune così universale andiamo talmente orgogliosi che abbiamo creduto di potervi fare rientrare tutto. In questo stato d’animo ce ne siamo partiti, allegri e contenti, per lo spazio: per altri mondi! Che voleva mai dire, altri mondi? Li avremmo dominati o ci avrebbero dominato, non c’era altro nei nostri poveri cervelli, e non ha senso. Non ha alcun senso. — Mi alzai e, tentoni, cercai nell’armadietto dei medicinali l’involucro piatto delle compresse di sonnifero. — Dormirò, cara — dissi, rivolto al buio in cui il ventilatore emetteva un alto ronzio. — Devo dormire, altrimenti non so… Sedetti sul letto e lei mi prese la mano. Strinsi la forma invisibile e rimasi immobile così, finché il sonno non sciolse la forza dell’abbraccio. La mattina, svegliandomi fresco e riposato, mi parve che l’esperimento sarebbe stato una bazzecola; non capivo perché mai mi fosse sembrato così importante nella notte. Non mi davo pensiero neanche del fatto che Harey sarebbe venuta con me. A dispetto di qualsiasi sforzo, non ce la faceva a restare sola in camera per due minuti; le dissi perciò di smettere di provare (si faceva anche rinchiudere) e di accompagnarmi; le consigliai di portare con sé un libro da leggere. Più che il procedimento, m’incuriosiva quel che avrei trovato nel laboratorio. Nella grande sala biancoazzurra, a parte un certo vuoto sugli scaffali e negli armadi delle provette (alcune antine mancanti, la lastra di vetro incrinata di una porta parlavano di una lotta recente le cui tracce erano state cancellate nel miglior modo possibile), non c’era niente di particolare. Snaut, che si dava da fare con le apparecchiature, si comportò molto correttamente, considerò la presenza di Harey come una cosa naturalissima e le fece un salutino da lontano; mentre mi bagnava la fronte e le tempie con il liquido fisiologico comparve Sartorius. Entrò dalla porticina della camera oscura. Indossava un camice bianco e su questo un grembiule antiradiazioni nero che gli scendeva fino alle caviglie. Mi fece un saluto sbrigativo e asciutto, come se fossi uno dei cento assistenti di un istituto e stessimo riprendendo un lavoro interrotto. Solo allora mi accorsi che l’inespressività del suo viso era dovuta alle lenti a contatto che portava al posto degli occhiali. Con le braccia conserte, rimase a guardare Snaut che mi fasciava la testa con una benda sopra gli elettrodi, creando una specie di cuffia. Più volte girò lo sguardo per tutta la sala senza far mostra di vedere Harey che, appollaiata con aria infelice su uno sgabello contro una parete, fingeva di leggere. Quando Snaut si scostò dalla poltrona, girai la testa coperta di metallo e cavi per osservarlo mentre attivava l’apparecchio, ma in modo del tutto inaspettato Sartorius alzò una mano e con sussiego attaccò: — Dottor Kelvin, le chiedo un istante di attenzione e di concentrazione! Non intendo forzarla in nulla. Ciò non avrebbe comunque alcun senso. Le domando però formalmente di non pensare a se stesso, a me, all’egregio collega Snaut, né a qualsiasi altra persona, per concentrarsi sulla questione che stiamo affrontando. La Terra e Solaris, le generazioni di scienziati che, al di là dei singoli la cui vita ha un principio e una fine, formano un corpo unico, la perseveranza della nostra aspirazione a stabilire un contatto, il lungo cammino storico dell’umanità, la certezza che proseguiremo in futuro sulla stessa strada, la determinazione di dedicare sacrifici e fatiche, senza personalismi, a questa nostra missione, ecco i temi di cui lei deve impregnare la sua coscienza. Le associazioni di idee non dipendono interamente dalla sua volontà, ma il fatto stesso che lei si trovi qui garantisce la bontà dell’intenzione. Se lei non sarà sicuro di avere assolto il compito appieno, voglia dircelo, e l’egregio collega Snaut ripeterà la registrazione. Abbiamo molto tempo… Le ultime parole furono accompagnate da uno stentato sorrisetto che non dissipò l’espressione imbambolata del suo sguardo. Mi venne voglia di ridere, per quella farragine di frasi pompose pronunciate con tanto sentimento, ma per fortuna Snaut ruppe il silenzio che si prolungava. — Possiamo cominciare, Chris? — domandò, appoggiato col gomito, in un gesto noncurante e familiare, al quadro di comando dell’encefalografo, come se fosse lo schienale di una sedia. Gli fui molto grato d’avermi chiamato per nome. — Possiamo cominciare — dissi, chiudendo gli occhi. Snaut, fissati gli elettrodi, appoggiò il dito sull’interruttore e l’ansia che mi aveva svuotato l’intelletto mi abbandonò di colpo. Fra le ciglia, vidi sulla lastra nera dell’apparecchio il lampeggiamento rosso delle luci di controllo. Sparì contemporaneamente la sensazione spiacevole di umido degli elettrodi metallici che mi stringevano la testa in un cerchio di fredde medaglie. Mi trovai in un’arena grigia, non illuminata. Era un vuoto circondato da ogni lato da una folla di spettatori invisibili ammassati sulle gradinate, tutti avvolti da un silenzio che esprimeva un ironico disprezzo per Sartorius e la «nostra missione». La tensione rifluì, perché dinanzi a quegli spettatori interiori dovevo ora improvvisare. «Harey?» Pensai questo nome con esitazione, con inquietudine, pronto a revocarlo subito. Ma la mia platea invisibile e cieca non protestava. Per un po’ fui tutto sentimento schietto, pentimento sincero, pronto a lunghi e pazienti sacrifici. Harey mi colmava, senza forma, senza lineamenti, senza volto, con un respiro di tenerezza impersonale e disperata, e attraverso la sua presenza vidi a un tratto nella penombra, con tutta la dignità del suo aspetto dotto e professorale, il padre della solaristica e dei solaristi, Giese. Ma non pensavo all’eruzione limacciosa, all’abisso nauseabondo che aveva inghiottito i suoi occhiali d’oro e i suoi baffi bianchi ben curati; lo vedevo soltanto nell’incisione del frontespizio della monografia, sullo sfondo finemente tratteggiato che l’artista aveva creato come un’aureola intorno alla testa; e quell’immagine, non tanto per i lineamenti quanto per l’espressione di avita e onesta saggezza, somigliava talmente a mio padre che non sapevo più chi dei due mi stesse guardando. Entrambi non avevano avuto sepoltura, fatto comune, ai nostri tempi, e che non desta particolare emozione. L’immagine scomparve e per un po’, non so per quanto, dimenticai la stazione, l’esperimento, Harey, l’oceano scuro, tutto; galleggiavo sulla certezza fulminea e istintiva che quei due uomini da tempo morti, infinitamente piccoli e ritornati polvere, avevano affrontato con coraggio tutti gli eventi della loro vita, e la pace che mi provenne da questo pensiero annullò la folla informe assiepata intorno all’arena nell’attesa di assistere alla mia sconfitta. Gli interruttori dell’apparato scattarono, la luce mi penetrò negli occhi. Sbattei le palpebre. Sartorius, sempre nella stessa posa, mi scrutava attentamente, Snaut gli volgeva le spalle, affaccendato intorno alle apparecchiature, strusciando ostentatamente le ciabatte che gli scivolavano via. — Lei pensa, dottor Kelvin, che sia riuscito? — interloquì Sartorius con voce chioccia e nasale. — Sì — dissi. — Ne è certo? — insistette Sartorius con una sfumatura di meraviglia o forse di sospetto. — Sì. La fermezza e il tono ruvido della mia risposta fecero vacillare per un momento la severa prosopopea di Sartorius. — Ah, allora… bene — mormorò, e si guardò in giro come incerto sul da farsi. Snaut si avvicinò alla poltrona e cominciò a togliermi le bende. Ero in piedi e camminavo su e giù per la sala, quando Sartorius, scomparso nella camera oscura, ne uscì con la pellicola già sviluppata e asciugata. Sulla striscia lunga una decina di metri, delle linee seghettate disegnavano in bianco cuspidi e ragnatele sul nero del nastro di celluloide. Personalmente non avevo più niente da fare, ma non me ne andai. Gli altri due inserirono la pellicola nella testata del modulatore e Sartorius ne guardò ancora l’estremità con diffidenza, come se tentasse di decifrare il contenuto di quelle linee vibranti. Il resto dell’esperimento non fu visibile. So soltanto che essi si posero ai quadri di comando, sulla parete, e che misero in moto gli opportuni congegni. La corrente si destò con un sordo brontolio negli avvolgimenti delle bobine sotto il pavimento blindato, poi la luce scese verso il basso nei tubicini verticali dei rilevatori, segnalando che il grosso tubo del cannone Roentgen calava, nel suo pozzo di protezione, fino all’orifizio aperto. Le luci sulla scala graduata erano al minimo; Snaut cominciò ad aumentare il voltaggio, facendo fare alla lancetta, o meglio alle strisce bianche che la sostituivano, un mezzo giro verso destra. Il rumore della corrente era appena percettibile, i tamburi dei film giravano invisibili sotto i loro coperchi, il ticchettio del contatore metrico era silenzioso come quello d’un orologio. Harey mi guardava, da sopra il libro. Mi rivolse un’occhiata interrogativa, quando mi avvicinai a lei. L’esperimento era finito. Sartorius si accostò lentamente alla grande testata conica dell’apparecchiatura. — Andiamo…? — mi chiese Harey muovendo appena le labbra. Acconsentii. Sì alzò e, senza salutare (sarebbe stata un’ostentazione), uscimmo sfiorando Sartorius. Le alte finestre del corridoio superiore mostravano un tramonto di singolare bellezza. Invece del solito e tetro rosso, aveva tutte le sfumature di un rosa cangiante, tempestato qua e là d’argento. La superficie ondeggiante, densa e nera, assumeva lucentezze marrone e viola sotto quella dolce carezza. Soltanto allo zenit il cielo era ancora color ruggine. Al piano inferiore mi fermai in mezzo al corridoio. Non sopportavo l’idea di tornare a rinchiuderci in quella cella carceraria che era la cabina, aperta solo sull’oceano. — Harey — dissi, — sai… vorrei fermarmi in biblioteca… non ti secca troppo? — Oh, no! Cercherò qualche cosa da leggere — rispose con una vivacità artificiale. Sentivo dal giorno prima che tra noi si era aperta una frattura, e che avrei dovuto mostrarmi più gentile, ma ero in preda a un’apatia completa. Non sapevo che fare per scuotermi. Tornammo sui nostri passi e, attraverso un breve andito, raggiungemmo la piccola anticamera, con tre porte e, fra queste, alcune vetrinette in cui crescevano delle piante. La porta della biblioteca era quella centrale, rivestita di finta pelle su entrambi i lati. Evitavo sempre di toccare l’imbottitura nell’aprirla. All’interno, nella sala rotonda dal soffitto chiaro, argenteo, con un sole nel mezzo, l’aria era più fresca. Feci scorrere la mano lungo i dorsi dei classici di solaristica con l’intenzione di prendere il primo volume di Giese, quello col suo ritratto nell’incisione del frontespizio, sotto la velina della pagina di guardia, ma inaspettatamente mi cadde l’occhio sul libro di Gravinski, un volume in ottavo dalla rilegatura logora, che le altre volte era sfuggito alla mia attenzione. Mi misi comodo su una sedia imbottita. C’era un profondo silenzio. Harey, a un passo da me, sfogliava un libro; udivo quando ne girava le pagine. Il manuale di Gravinski era un prontuario delle ipotesi solaristiche in ordine alfabetico, da «abatologia» a «zoototemicità». Il compilatore, che non aveva mai visto Solaris, aveva spulciato monografie, verbali di spedizione, relazioni di viaggio, saggi, comunicazioni sommarie, andando perfino a pescare le citazioni nelle opere di planetologi che studiavano altri globi, e aveva così steso un catalogo ricco di definizioni semplicistiche che compendiavano grossolanamente le sottigliezze del pensiero originale. Quell’opera, concepita con intento enciclopedico, costituiva ormai poco più di una curiosità. Il volume aveva ormai vent’anni e nel frattempo, nel campo degli studi di solaristica, era cresciuta una montagna d’ipotesi. Un libro non sarebbe bastato a contenerle. Consultai l’indice dei nomi, che elencava alfabeticamente gli autori citati, ed era come scorrere un’anagrafe mortuaria; pochi erano ancora vivi e nessuno, fra questi, si dedicava più allo studio attivo di Solaris. Di fronte a quella profusione di pensiero, spesa in tutte le direzioni, si rimaneva impressionati; qualcuna delle ipotesi doveva certo contenere una briciola di verità: non era possibile che la realtà fosse completamente diversa. Nella prefazione Gravinski divideva in periodi i sessant’anni iniziali di attività solaristica. Durante il primo, che cominciava con la ricognizione preliminare di Solaris, nessuno aveva formulato esplicitamente ipotesi. Sulla base del «buon senso», si riteneva allora, intuitivamente, che l’oceano fosse un conglomerato chimico senza vita, un’immane massa gelatinosa che circondava il globo, che produceva per attività «quasi vulcanica» creazioni stupefacenti e che stabilizzava la propria orbita instabile in virtù di un processo meccanico autogeno, così come il pendolo, una volta messo in moto, mantiene immutato il proprio piano di oscillazione. A dire il vero, già poco tempo dopo Magenon aveva fatto cenno alla natura di essere vivente della «macchina colloidale»; ma Gravinski faceva cominciare il periodo delle ipotesi biologiche nove anni dopo, quando il parere di Magenon, precedentemente disatteso, cominciava ad avere numerosi seguaci. Gli anni successivi avevano conosciuto un’intensa fioritura di interpretazioni teoriche dell’oceano vivente suffragate da analisi biomatematiche. Il terzo periodo era quello del marasma delle opinioni scientifiche, fino ad allora più o meno unanimi. Erano gli anni che avevano visto nascere una quantità di scuole in aspra lotta fra loro. Il tempo in cui furono attivi i Panmaller, gli Strobli, i Freyhousse, i Le Greuille, gli Osipowicz. Tutta l’eredità di Giese fu sottoposta a revisione. Nacquero i primi atlanti, i primi cataloghi, le prime stereografie degli asimmetriadi, ritenuti inesplorabili fino a poco prima (nel frattempo nuovi strumenti teleguidati erano stati introdotti all’interno di quegli spaventosi colossi che esplodevano da un momento all’altro). In margine alle tempestose discussioni si cominciarono a elaborare dei programmi minimali in un primo momento sdegnosamente scartati, fondati sull’idea che, se pure non si riusciva a stabilire il famoso «contatto» col «mostro raziocinante», valeva pur sempre la pena di studiare le città cartilaginose e le montagne gonfiate, create e subito distrutte e riassorbite dall’oceano, per l’ampliamento di conoscenze fisiche e chimiche che se ne sarebbero ricavate e per l’arricchimento delle esperienze nel campo delle macrocellule; ma con i sostenitori di questi surrogati di programma nessuno si abbassava a discutere. Era il periodo nel quale furono redatti i cataloghi, validi ancor oggi, delle metamorfosi tipiche. Frank sviluppò la sua teoria bioplasmatica sui mimoidi che, per quanto abbandonata in seguito perché riconosciuta erronea, continua a rappresentare uno stupendo esempio di arditezza intellettuale e di costruttività logica. Questi «periodi gravinskiani» furono l’ingenua giovinezza, il romanticismo irresistibilmente ottimistico della solaristica, e finirono col primo annuncio dell’età matura, contrassegnata dallo scetticismo. Intorno ai venticinque anni dagli inizi degli studi, le lontane ipotesi colloidomeccanicistiche avevano trovato una progenie nella teoria sulla natura apsichica dell’oceano. Con opinione quasi unanime si ritenne aberrante la posizione di tutta una generazione di studiosi i quali avevano creduto di scorgere le manifestazioni di una volontà cosciente, dei processi teleologici, un’attività motivata da qualche necessità intima dell’oceano. Refutandone le tesi con grande zelo pubblicistico si preparò il terreno al gruppo Holden, Eonides e Stoliwa, le cui lucide speculazioni si concentravano, con solido fondamento analitico, su un esame minuzioso dei dati instancabilmente radunati; fu il tempo in cui si gonfiarono e sovraccaricarono a dismisura archivi e microfilmoteche, e in cui le spedizioni, composte talvolta da più di mille persone, partivano attrezzate di tutta la migliore strumentazione, registratori automatici, rilevatori, sonde, che la Terra potesse fornire. Tuttavia, mentre l’ammasso di materiale procedeva con ritmo sempre crescente, il vero spirito di ricerca andava disperdendosi; venne così il vero e proprio inizio della fine di quella fase eminentemente ottimistica delle esplorazioni solaristiche. Era stata una fase caratterizzata da personalità grandissime e audaci sia nell’affermazione sia nella negazione di un concetto teorico, come quelle di Giese, di Strobel, di Sevada, l’ultimo dei grandi solaristi, scomparso in circostanze misteriose nei pressi del Polo Sud del pianeta, vittima apparentemente di un’imprudenza che nemmeno un novizio avrebbe commesso. Planava a bassa quota sull’oceano quando, sotto gli occhi di un centinaio di osservatori, aveva gettato il proprio apparecchio nella voragine di un agilante. Si parlò allora di improvvisa debolezza, di svenimento, di guasto ai congegni di guida; io credo che si trattò in realtà del primo suicidio, di uno scoppio improvviso di disperazione. Non fu l’ultimo. Ma nell’opera di Gravinski non ce n’era traccia, ero io a supplire con dati, fatti e particolari che attingevo dalle mie conoscenze, mentre sfogliavo le pagine ingiallite. Non c’erano più stati, in seguito, casi di attentati così patetici alla propria vita, ma è anche vero che si erano fatte rare le grandi personalità. Il reclutamento di studiosi che si dedicano a campi specifici della planetologia costituisce un fenomeno praticamente sconosciuto. La frequenza numerica con cui vengono al mondo individui dotati di grande ingegno e forza di carattere rimane invariata; variano invece le loro scelte. La loro presenza o assenza in un determinato campo di ricerca si può spiegare in relazione alle possibilità offerte dal campo stesso. Ora, comunque si giudichino gli studiosi dell’epoca classica della solaristica, nessuno potrà negare loro la grandezza del genio. Per una decina d’anni i migliori matematici e fisici, i più insigni specialisti di biofisica, informatica, elettrofisica erano stati attratti dal muto gigante di Solaris. Poi, da un momento all’altro, l’esercito di ricercatori sembrò senza capi. Rimaneva una schiera grigia e anonima di raccoglitori e compilatori, sia pure capaci di avviare talvolta esperimenti originali, ma le spedizioni massicce concepite su scala globale e le ipotesi ardite e stimolanti non c’erano più. La solaristica cominciava a sgretolarsi e, parallelamente alla sua perdita di quota, cresceva una massa d’ipotesi, diversificate in quanto a particolari secondari, ma unanimi nell’insistere sul carattere degenerativo, regressivo, involutivo del mare di Solaris. Ogni tanto spiccava una concezione più ardita e interessante; tutte però giudicavano l’oceano negativamente, come prodotto finale d’uno sviluppo che da molto tempo, da millenni, aveva oltrepassato la fase di più alta organizzazione e che, ridotto a mera unità fisica, agonizzava producendo creazioni vane e senza senso. Un’agonia monumentale che durava da secoli: così si considerava Solaris. Mimoidi e longhi erano tumori, tutti i processi osservati sulla superficie dell’enorme corpo fluido manifestazioni di caos e di anarchia; e a tal punto questa tendenza volse all’idea fissa che tutta la letteratura scientifica dei sette od otto anni successivi, sia pure nel velo di formulazioni misurate, si nutrì di affermazioni che in realtà erano soltanto un torrente d’ingiurie che un’intera generazione di solaristi derelitti, senza capi, riversava per vendetta contro l’oggetto stesso delle proprie cure, imperturbabile, indifferente, sordo alla loro assiduità. Conoscevo i lavori originali, a mio parere ingiustamente esclusi da quella raccolta di classici «solaristici», di un gruppo d’una decina di psicologi europei che interessavano la solaristica solo in quanto avevano condotto su un arco di tempo notevolmente lungo un rilevamento delle reazioni dell’uomo comune, del profano. Era emersa in tal modo l’esistenza di una corrispondenza molto stretta fra le fluttuazioni dell’opinione pubblica e i contemporanei processi di cambiamento di rotta negli ambienti scientifici. Anche in seno al comitato coordinatore degli Istituti planetologici, dove si prendevano le decisioni in merito all’appoggio da dare alle ricerche, era in atto un mutamento che si esprimeva nella riduzione graduale ma continua dei sostegni alle squadre che partivano per il pianeta. Le mozioni sulla necessità di ridurre gli stanziamenti per le ricerche erano contrastate da alcune voci che richiedevano, al contrario, mezzi d’azione più energici; nessuno, in tal senso, superò il direttore amministrativo dell’Istituto cosmologico onniterrestre, il quale si spinse a sostenere con ostinazione che l’oceano vivente non già sdegnava d’occuparsi degli uomini, bensì non se ne accorgeva, non diversamente da un elefante che non sente le formiche a spasso sulla sua schiena. Per richiamare l’attenzione e far sì che si concentrasse sugli uomini, occorreva impiegare incentivi potenti e macchine gigantesche, di grandezza adeguata alla dimensione del pianeta. L’aspetto buffo della cosa, come la stampa non mancò di sottolineare con malizia, era che la proposta veniva dal direttore dell’Istituto cosmologico e non di quello planetologico, che finanziava le spedizioni su Solaris; ciò significava fare i generosi con le risorse altrui. Proseguiva intanto il girotondo delle ipotesi, rinnovando le vecchie con l’aggiunta o la precisazione di un particolare o capovolgendone le ambiguità e le conclusioni. La solaristica, disciplina fino ad allora chiara nonostante la sua ampiezza, si trasformava in un labirinto pieno di vicoli ciechi. In un clima generale d’indifferenza, di ristagno e di scoraggiamento, un secondo oceano, di carta stampata, sembrava accompagnare nel tempo quello di Solaris. Due anni prima che, da laureando, entrassi all’Istituto nel gruppo di lavoro di Gibarian, era sorta la Fondazione Metta e Irving, che prometteva alte ricompense a chi avesse trovato il sistema per sfruttare l’energia del magma oceanico. Si erano fatti dei tentativi, le navi spaziali avevano trasportato sulla Terra carichi interi di gelatina plasmatica. Erano stati elaborati dei metodi di conservazione a bassa e ad alta temperatura, con microatmosfere e microclimi che riproducevano quelli di Solaris, con fissazione per mezzo di radiazioni, con milioni di ricette chimiche, assistendo ogni volta, immancabilmente, a una decomposizione più o meno lenta, che era stata descritta con la massima precisione in tutte le successive fasi: autolisi, macerazione, liquefazione primaria, o precoce, e secondaria, o tardiva. I campioni prelevati sulle efflorescenze e sulle creazioni del plasma subivano sempre la medesima sorte. Cambiava solo il cammino verso la fine, che, dopo un processo di autofermentazione, lasciava una cenere leggera dai riflessi metallici. Qualsiasi solarista era in grado di riconoscerne a occhi chiusi la composizione e il rapporto fra gli elementi costitutivi. Risoltosi in fiasco completo ogni tentativo di mantenere in vita, sia pure allo stato vegetativo e ibernante, una qualsiasi parte grande o piccola del mostro separata dal suo organismo planetario, nacque la convinzione (sviluppata dalla scuola di Meunier e Proroch) che per risolvere il mistero esistesse una sola strada: trovare la chiave giusta d’interpretazione, che avrebbe chiarito tutto… Alla ricerca di questa chiave, di questa pietra filosofale solaristica, si era gettata con grande spreco di tempo e di energia una quantità di gente digiuna di studi. Il numero di menti malate, estranee all’ambiente scientifico, che si davano alla speculazione — maniaci che per fanatismo nulla avevano da invidiare ai ricercatori del moto perpetuo o della quadratura del cerchio — si moltiplicò come per il propagarsi di un’epidemia, tanto che se ne occupò anche la psicologia. Questa fiammata, tuttavia, si estinse nel giro di alcuni anni e all’epoca in cui mi preparavo a partire per Solaris non se ne parlava più, né sui giornali né nelle conversazioni, come non si parlava più, in genere, della questione dell’oceano. Riponendo il libro di Gravinski al suo posto, trovai, fra i grossi volumi, un opuscolo sottile di Grattenstrom, scrittore fra i più singolari della letteratura solaristica. Questa era un’opera contro l’umanità stessa, un libello sulla nostra specie compilato con matematica aridità da un autodidatta che, dopo avere pubblicato alcuni contributi assai curiosi in campi marginali della fisica quantica, aveva voluto dimostrare in quelle poche pagine che le più alte conquiste scientifiche e teoretiche costituivano appena un passettino in avanti rispetto al concetto preistorico, grossolano, antropomorfico del mondo circostante. Attraverso l’indagine sulle eventuali corrispondenze tra il corpo umano (le proiezioni dei nostri sensi, della struttura del nostro organismo e delle limitazioni e imperfezioni della fisiologia umana) e le formule della teoria della relatività, il teorema dei campi magnetici, la parastatica e le teorie unificate del campo cosmico, Grattenstrom giungeva alla conclusione finale che il «contatto» dell’uomo con qualsiasi civiltà di natura non umana, aumanoide, non poteva né mai avrebbe potuto attuarsi. In questo libello, l’oceano vivente non veniva mai nominato; eppure la sua presenza, sotto forma di un trionfale silenzio, affiorava in ogni frase. Questa era stata, comunque, la mia impressione nei confronti dell’opuscolo di Grattenstrom. Che era, in sostanza, una curiosità e non un solarianum nel vero senso del termine. Se si trovava nella biblioteca fra i classici, doveva avercelo messo certamente Gibarian, che a suo tempo me l’aveva segnalato. Con uno strano sentimento, quasi reverenziale, rimisi anche questo al suo posto, fra i libri stretti sul ripiano. Sfiorai con la punta delle dita i dorsi rilegati, verde bronzo, dell’ Almanacco di Solaristica. Senza alcun dubbio, in seguito agli avvenimenti degli ultimi giorni, nonostante tutto il caos e tutte le miserie da cui eravamo attorniati, avevamo raggiunto alcune certezze su alcune questioni fondamentali che nel corso degli anni avevano fatto versare inutilmente fiumi d’inchiostro e alimentato discussioni rimaste sterili per mancanza di elementi determinanti. Qualcuno, per amore del paradosso o per ostinazione, avrebbe potuto mettere ancora in dubbio che l’oceano fosse una creatura viva. Impossibile negare, però, l’esistenza di una sua «psichica», qualsiasi cosa s’intenda con tale parola. Era comunque ovvio che fosse influenzato dalla nostra presenza… e ciò eliminava definitivamente le teorie solaristiche sull’oceano come «mondo in se stesso» o «essere introverso» che, per processo involutivo, era rimasto privo di organi sensori e che, ignaro dell’esistenza di fenomeni e oggetti esterni, girava come un prigioniero in un circolo chiuso gigantesco di correnti di pensiero, di cui era sede, cornice e fonte. Inoltre avevamo compreso che, a differenza di noi, egli riusciva a sintetizzare artificialmente i nostri corpi e addirittura a perfezionarli ai fini dei suoi incomprensibili intenti, introducendovi delle modifiche di struttura subatomica. Esisteva, insomma. Viveva, pensava, agiva. La possibilità di ridurre il «problema Solaris» all’assurdo o allo zero, la tesi che non avessimo a che fare con un essere e che quindi la nostra sconfitta tale non fosse non era più sostenibile. Volente o nolente, l’umanità doveva ora prendere in considerazione un vicinato che, seppure distante mezzo miliardo di chilometri di spazio e molti anni luce, era compreso nella nostra zona di espansione; un vicinato che aveva maggior peso di tutto il resto dell’universo. «Forse siamo a un punto cruciale della storia» pensai. Poteva prevalere la decisione della ritirata, del dietrofront, subito o in un prossimo futuro; anche la liquidazione della stazione non era impossibile, o improbabile. Ma non credevo che in questo modo si fosse trovato un rimedio: l’esistenza del colosso pensante non avrebbe più dato requie alla gente. Anche se l’uomo avesse attraversato galassie, anche se si fosse messo in comunicazione con altre civiltà e con altri suoi simili, Solaris avrebbe eternamente rappresentato una sfida. Un altro volumetto rilegato in pelle si era infilato fra le annate dell’ Almanacco. Prima di aprirlo rimasi un po’ a rimirarne la copertina rovinata. Era un vecchio libro, Introduzione alla solaristica di Muntius; ricordavo ancora la notte di sonno che mi aveva sottratto, il sorriso di Gibarian nel darmelo, il giorno terrestre che albeggiava dietro i vetri della mia finestra quando ero giunto alla parola «fine». «La solaristica» scriveva Muntius «è un succedaneo di religione dell’era cosmica, una fede che riveste i panni della scienza; il Contatto, suo fine supremo, è altrettanto oscuro e nebuloso quanto la Comunione dei Santi o la venuta del Messia. L’esplorazione pone in atto un sistema liturgico sotto la forma metodologica; l’umile laboriosità dei ricercatori è l’attesa di un Avvento, di un’Annunciazione, poiché tra Solaris e la Terra non esistono né possono esistere ponti. Ma questa verità evidente, come altre, come l’assenza di esperienze in comune e di concetti comunicabili, viene respinta dai solaristi nel modo in cui i credenti ricusano qualsiasi argomento che mini le basi della loro fede. Del resto, che cosa si aspetta l’uomo, che cosa si ripromette mai, stringendo ‘relazioni informative’ con un mare pensante? Un elenco delle vicissitudini di un’esistenza senza fine nel tempo, così antica da avere sicuramente perso memoria delle proprie origini? Una descrizione dei desideri, delle passioni, delle speranze, delle angosce che si liberano nel parto autogeno di montagne viventi, una trasmutazione esistenziale della matematica, una pienezza di solitudine e rassegnazione? Ma tutto ciò costituisce una conoscenza non tramandabile, e se proviamo a tradurla in una qualsiasi lingua terrestre, gli auspicati valori e significati vanno perduti, rimangono dall’altra parte. Del resto, i ‘credenti’ non aspirano alla percezione di cognizioni di questo tipo, tra l’altro pertinenti a un ordine poetico più che scientifico, ma aspettano la Rivelazione che spieghi il senso dell’esistenza umana! La solaristica è figlia postuma di miti da tempo defunti, una rifioritura di nostalgie mistiche che le labbra degli uomini non osano proferire apertamente ad alta voce, e il suo fondamento, profondamente nascosto, è la speranza della Redenzione… «Ma i solaristi, incapaci di riconoscere questa verità, evitano prudentemente qualsiasi interpretazione del Contatto, che nei loro scritti è presentato come fine ultimo mentre nelle opinioni ancora serene dei primi tempi era visto solo come un inizio, come un avvio che, con l’andare degli anni, è stato invece santificato, fino a identificarsi con il Cielo e con l’Eternità…» Semplice e amara è l’analisi di Muntius, questo «eretico» della planetologia, ma brillante nella negazione, che distrugge il mito di Solaris, o meglio della «missione dell’uomo». Prima voce che ardisse levarsi in una fase di sviluppo della solaristica ancora piena di fiducia e d’ottimismo, cadde in un silenzio totale, fu ignorata. Ben si capisce, poiché l’accettazione del verbo di Muntius equivaleva alla cancellazione della solaristica così com’era. In quanto all’instaurazione di un’altra, più lucida e umile, l’attesa di un fondatore fu vana. Cinque anni dopo la morte di Muntius, quando il suo libro era già una rarità bibliografica, introvabile nelle raccolte di solaristica come nelle biblioteche filosofiche, nacque una scuola, il circolo norvegese, che si richiamava a lui. Ma l’eredità di Muntius si disperse secondo la personalità del pensatore che se ne appropriava, e la serenità della sua lezione sfociò nell’ironia aggressiva e corrosiva di Erle Ennesson e nel contesto più triviale della solaristica pratica, o «utilitaristica», di Phaelang. Secondo le affermazioni di quest’ultimo, bisognava mirare ai concreti profitti che si potevano trarre dalle esplorazioni senza rincorrere vane chimere o disperdersi nelle false speranze di un contatto di civiltà, di una comunione intellettuale fra le due civiltà. Messi a confronto con l’implacabile chiarezza d’analisi di Muntius, tutti gli scritti di questi suoi discepoli non sembrano altro che lavori diligenti o addirittura di volgarizzazione, fatta eccezione per le opere di Ennesson e forse anche di Takata. Muntius stesso aveva detto proprio tutto, definendo la prima fase della solaristica come epoca «dei profeti», fra i quali includeva Giese, Holden e Sevada, chiamando la seconda fase «il grande scisma» (scissione della chiesa unica solaristica in una quantità di confessioni diverse e discordi), e prevedendo una terza fase, quella della fossilizzazione dogmatica e scolastica, che sarebbe sopraggiunta quando si fosse esplorato tutto quel che c’era da esplorare. Questo non si è avverato. A mio parere, Gibarian aveva ragione nel giudicare che l’argomentazione sbrigativa di Muntius fosse di un madornale semplicismo, avendo trascurato di considerare ciò che nella solaristica era tutt’altro che elemento di fede, poiché i lavori instancabilmente perseguiti prendevano in considerazione solo la realtà materiale di un globo che girava intorno a due soli. Nel libro di Muntius era inserito, piegato in due, un estratto molto ingiallito della rassegna trimestrale Parerga Solariana, uno dei primi lavori di Gibarian, di quando non aveva ancora assunto la direzione dell’Istituto. Al titolo, Perché sono solarista, seguiva succintamente, quasi alla maniera di un promemoria, un elenco dei fenomeni concreti che suffragavano l’esistenza di reali possibilità di contatto. Gibarian era appartenuto a quell’ultima generazione di studiosi che avevano avuto il coraggio di riallacciarsi all’ottimismo della prima età d’oro e che quindi non avevano rinnegato una fede che specificamente oltrepassava i confini limitati della scienza, ma fede dichiaratamente materiale, poiché credeva al successo di sforzi perseveranti e dinamici. Gibarian proveniva dalla scuola eurasiana di Cho En Min, Nygalla e Kavakadze, ben nota per le sue classiche ricerche bioelettroniche. Queste stabilivano degli elementi di somiglianza fra i diagrammi dell’attività elettrica del cervello e certe scariche che avvenivano nell’ambito del plasma, precedendo per esempio la creazione di polimorfi elementari. Gibarian respingeva le interpretazioni antropomorfiche, e tutte le tesi mistificatrici della scuola psichiatrica, di quella psicoanalitica e di quella neurofisiologica, che si sforzavano di scorgere nella massa oceanica i sintomi di malattie umane, fra cui l’epilessia (alla quale paragonavano le eruzioni spasmodiche degli asimmetriadi); egli era infatti fautore del contatto, ma era quant’altri mai cauto e lucido, e alieno soprattutto dagli aspetti sensazionali che accompagnavano talvolta (sempre più raramente, a dire il vero) le scoperte. Un’ondata d’interesse di questo tipo era stata suscitata proprio dalla mia tesi di laurea. Anch’essa si trovava qui, non pubblicata, naturalmente, ma custodita da qualche parte nei contenitori dei microfilm. Ero partito dagli studi innovatori di Bergmann e Reynolds, i quali, attraverso una serie di processi molto diversificati, erano riusciti a individuare e a «filtrare» le componenti che accompagnavano le emozioni forti, quali la disperazione, il dolore, la voluttà; avevo poi messo sistematicamente a confronto queste registrazioni con scariche delle correnti oceaniche, avevo osservato delle oscillazioni e descritto delle curve (in determinate parti dei simmetriadi, alla base dei mimoidi in formazione eccetera) che rivelavano analogie degne di attenzione. Ciò era bastato per far apparire il mio nome, su certa stampa scandalistica, in relazione a titoli grotteschi come La gelatina si dispera oppure Pianeta in orgasmo. La cosa, in fin dei conti, mi giovò (così almeno avevo creduto), poiché Gibarian, che come ogni altro solarista non poteva leggere tutte le migliaia di lavori che comparivano soprattutto se si trattava di principianti, s’interessò a me e mi scrisse una lettera. Questa lettera chiuse un capitolo della mia vita e ne aprì un altro. 12. SOGNI Sei giorni dopo, non essendoci stata alcuna reazione, ripetemmo l’esperimento. La stazione, rimasta ferma fino a quel momento all’incrocio tra il 43esimo parallelo e il 116esimo meridiano, si spostò verso sud planando a un’altezza di quattrocento metri sopra l’oceano, poiché i rilevatori dei nostri radar e i radiogrammi del satellite segnalavano una ripresa di attività del plasma nell’emisfero australe. Il fascio invisibile di raggi X modulati dal mio encefalogramma colpì per due giorni a intervalli di alcune ore la superficie dell’oceano, completamente piatta. Al termine del secondo giorno eravamo così vicini al Polo che, quando tutto il disco solare azzurro calò dietro l’orizzonte, già dal lato opposto le nubi gonfie s’imporporavano annunciando il levarsi del sole rosso. Nel mezzo, l’immensità nera dell’oceano e il sovrastante cielo vuoto divennero teatro di un parapiglia veemente e abbacinante fra uno sfavillio d’un verde duro e virulento dai riflessi di metallo incandescente e i cupi bagliori purpurei; l’oceano stesso partecipava alla contesa dei riflessi dei due dischi rivali, dei due focolai divampanti, l’uno argento vivo, l’altro scarlatto, e qualsiasi nuvoletta che transitasse allo zenit bastava a incendiare di luccichii iridati la schiuma sul pendio delle onde. Subito dopo il tramonto azzurro, sull’ultimo orizzonte di nordovest, nel velo della foschia rugginosa e con splendori intermittenti, spuntò sulla linea fra cielo e plasma un gigantesco fiore di vetro: un simmetriade. La stazione non cambiò rotta e in capo a un quarto d’ora il colossale rubino si spense come una lampada vacillante dietro l’orizzonte. Pochi minuti dopo una colonna alta e sottile, di cui non si vedeva la base nascosta dalla curvatura del pianeta, si elevò silenziosa nell’atmosfera per alcune migliaia di metri. Annunciando la fine del simmetriade avvistato poco prima, il tronco per metà avvampato di rosso, per metà lucente come l’argento vivo, continuò a crescere, albero bicolore diviso in cima in una profusione di ramificazioni le cui punte, riunendosi, formarono un enorme fungo illuminato dai due soli, e la testa di questo prese il volo nel vento mentre la parte inferiore, enfiata, si scomponeva in grossi grappoli e lentamente affondava. In capo a un’ora lo spettacolo era sparito senza lasciare traccia. Passarono ancora due giorni. L’esperimento fu ripetuto per l’ultima volta. Le radiazioni avevano ormai spazzato una vasta distesa di superficie plasmatica. A sud spuntarono, chiaramente visibili dalla nostra altitudine, sebbene fossimo lontani trecento chilometri, gli Arrhenidi, una catena rocciosa con sei picchi che parevano coperti di neve, mentre in realtà si trattava di depositi di origine organica, che dimostravano come questa formazione montuosa fosse stata un tempo in fondo all’oceano. Cambiammo la rotta, procedendo per sudest, e per un certo tempo avanzammo parallelamente alla barriera di monti coperti di nuvole, tipiche del giorno rosso; infine li perdemmo di vista. Dal primo tentativo erano trascorsi dieci giorni. Durante tutto questo tempo nella stazione pareva che non accadesse niente. Dopo che Sartorius aveva programmato inizialmente l’esperimento c’era un apparecchio automatico che lo ripeteva, e non sono nemmeno sicuro che qualcuno s’incaricasse di controllarne il regolare funzionamento. Al tempo stesso, però, nella stazione accadeva anche più di quanto ci si potesse augurare. E non da uomo a uomo. Io temevo che Sartorius mandasse avanti i suoi lavori per l’approntamento dell’annichilitore; aspettavo la reazione di Snaut quando avrebbe saputo dall’altro che lo avevo tratto in inganno esagerando i pericoli insiti nell’annientamento di una materia neutrinica. Tuttavia non accadeva nulla del genere per motivi che mi rimanevano assolutamente sconosciuti; beninteso, avevo presente la possibilità che avessero intrapreso qualche lavoro in segreto. Tutti i giorni andavo a dare un’occhiata nel locale dove si trovava l’annichilitore, ma non c’era mai nessuno, e la polvere depositata sulla copertura metallica e sui cavi dimostrava che non erano stati toccati da varie settimane. Snaut, intanto, era diventato invisibile quanto Sartorius, e ancor più irreperibile poiché il videotelefono della cabina radio non rispondeva alle chiamate. Qualcuno doveva pur dirigere i movimenti della stazione, ma non sapevo chi. Né questo m’interessava, per quanto strano possa sembrare. Anche della mancanza di reazioni da parte dell’oceano m’importava poco, al punto che in capo a due o tre giorni avevo cessato di aspettarmele o di temerle; mi ero dimenticato e di loro e dell’esperimento. Passavo giornate intere seduto nella biblioteca o nella cabina con Harey, che mi seguiva come un’ombra. Vedevo che fra noi stagnava un malessere, e questo stato di provvisorietà apatica e immemore non poteva durare indefinitamente. Avrei dovuto vincerlo, dare un altro corso ai nostri rapporti, ma respingevo il solo pensiero di un cambiamento. Ero incapace di prendere una decisione; non sapevo spiegarmelo se non con l’impressione che ogni cosa nella stazione, e soprattutto ciò che c’era tra Harey e me, fosse un’impalcatura in equilibrio instabile, pericolante, pronta a crollare in ogni istante. Perché? Non lo so. La cosa più strana era che anche lei provava più o meno la stessa sensazione. Se ci ripenso ora, mi sembra chiaro che attraverso questa impressione d’insicurezza, di sospensione, questo presentimento di cataclisma incombente, si manifestasse una presenza che aveva riempito ogni ponte e ogni spazio della stazione. Forse prendeva corpo anche per un’altra via: i sogni. Poiché non ho mai avuto simili visioni prima d’allora (né in seguito), mi risolsi a prendere talvolta degli appunti sul loro contenuto, e solo in virtù di ciò posso ora recuperarne una parte, seppur incompleta, e priva della loro sconvolgente pienezza. In un contesto che non si lascia esprimere appieno, in uno spazio senza cielo né terra, senza pavimento, soffitto o pareti, stavo come acciambellato o imprigionato in una materia estranea, quasi che tutto il corpo fosse rivestito di una sostanza semimorta, immobile, informe; o meglio, quasi che io fossi senza corpo, circondato da macchie indefinite di un colore rosa chiaro, sospese in un elemento che aveva proprietà ottiche diverse da quelle dell’aria, tale che le cose vicine diventavano chiare, ma di una chiarezza innaturale, immensa, poiché in questi sogni l’ambiente adiacente superava per evidenza materiale l’impressione della realtà. Nello svegliarmi avevo la sensazione paradossale che la realtà vera fosse quella, e che quanto vedevo riaprendo gli occhi fosse solo un’ombra. Questo era il primo atto, l’esordio dal quale si sviluppava il sogno. Intorno a me qualcosa aspettava il mio consenso, il mio accordo, un cenno di gradimento interiore, e io sapevo, o qualcosa in me sapeva, che non dovevo cedere alla tentazione incomprensibile, poiché, quanto più — in silenzio — promettevo, tanto peggiore sarebbe stata la fine. O forse non lo sapevo, perché altrimenti avrei avuto paura, mentre non l’ho mai provata. Aspettavo. Dalla nebbia rosea che mi circondava emergeva la prima pressione tattile e io, immobile come un ciocco, imprigionato in quella materia che mi racchiudeva, non potevo né retrocedere né dibattermi mentre essa esaminava la mia prigionia con tocchi ciechi e insieme vigili; ed era come se la palma di una mano mi creasse: non avevo avuto vista fino ad allora e adesso vedevo, sotto il tocco delle dita che andavano tastandomi emergevano dal nulla le mie labbra, le guance, e a mano a mano che questo tocco infinitesimale si estendeva io avevo un viso, un torso provvisto di respiro, richiamati in vita solo da quell’atto di creazione; atto simmetrico, poiché creato a mia volta creavo e mi appariva dinanzi un viso mai visto, straniero, noto, che io cercavo di guardare negli occhi senza riuscirci in quelle proporzioni cambiate, in quell’assenza di ogni direzione per cui solo in un silenzio raccolto ci scoprivamo vicendevolmente, io rinato alla vita e pieno d’illimitata forza e l’altro essere — una donna? — che durava insieme con me nell’immobilità. Una pulsazione ci colmava ed eravamo tutt’uno quando a un tratto, nella lentezza della scena al di fuori della quale niente esisteva né poteva esistere, si inseriva una crudeltà indicibile, un’impossibilità, un’antinatura. Quello stesso tocco invisibile che ci aveva creati dal nulla e aderiva ai nostri corpi come un manto dorato diventava un formicolio. I nostri corpi nudi e bianchi cominciavano a dissolversi, ad annerire in un brulichio di vermi che ci portava via nell’aria, e io ero, noi eravamo, io ero una massa brillante di vermi che si contorcevano annodandosi e sciogliendosi febbrilmente senza fine, infinitamente; e in questa infinità — no! — io, questa infinità, invocavo muto l’estinzione, e cominciavo allora a diffondermi in tutte le direzioni e la mia sofferenza, più viva di qualsiasi dolore provato da sveglio, si gonfiava centuplicata, si addensava in una lontananza rossa e nera, in breve diventava dura come la roccia, una vetta di dolore nei raggi di un altro sole o di un altro universo. Questo era uno dei sogni più semplici, gli altri non riesco a raccontarli perché l’orrore che provocavano non trova espressioni corrispondenti nello stato di veglia cosciente. In questi sogni ignoravo l’esistenza di Harey, ma non trovavo neanche memorie di altre esperienze vissute durante il giorno. C’erano anche altri sogni, che cominciavano in tenebre senza vita, in cui sentivo di essere auscultato lentamente, minuziosamente, ma senza venire toccato da uno strumento o da una mano; era una penetrazione, una distruzione, una dispersione, e l’ultimo stadio, il fondo di questo silenzioso annientamento, era la paura, una paura il cui solo ricordo basta oggi ad accelerare i palpiti del mio cuore. I giorni uguali e scialbi, pieni di noia e di avversione per tutto, strisciavano via lentamente in una indifferenza infinita, avevo soltanto orrore della notte e non sapevo come sottrarmici; rimanevo sveglio con Harey, che peraltro non aveva assolutamente bisogno di dormire, la baciavo e la accarezzavo, però sapevo che non facevo questo per lei né per me, ma solo per ritardare il momento di addormentarmi. Non le avevo detto una sola parola dei miei tremendi incubi, ma doveva avere indovinato, poiché sentivo il suo stato cosciente di umiliazione: non potevo farci nulla. Ho già detto che con Snaut e Sartorius non ci eravamo più visti; Snaut ogni tanto si faceva vivo, con un biglietto e, più spesso, chiamandomi per telefono. Mi chiedeva se avessi notato qualche fenomeno nuovo, qualche cambiamento, qualcosa che si potesse interpretare come una reazione provocata dall’esperimento. Gli dicevo di no, e gli restituivo la domanda. Snaut negava con un semplice cenno del capo in fondo al video. Il quindicesimo giorno dopo il termine della sperimentazione mi svegliai prima del solito, spossato dall’incubo avuto; aprii gli occhi assonnati, come se mi svegliassi da una profonda narcosi. Attraverso la finestra non oscurata vedevo il primo splendore del sole rosso prolungato come un fiume purpureo che tagliava l’oceano; la superficie rimasta sino ad allora senza vita si stava intorbidendo. Il nero impallidiva di colpo, coprendosi di un velo sottile di nebbia, ma sembrava che questa nebbia avesse consistenza corporea. Qua e là nascevano dei centri di turbolenza, finché un movimento indefinito non avvolse tutto quello spazio invisibile. Il nero sparì completamente, coperto da una pellicola ondulata rosa chiaro che, nelle cavità, era marrone perlaceo. I colori cangianti su questa strana copertura sospesa sull’oceano formarono lunghi filamenti solidificati, traballanti nell’agitazione crescente delle onde, e infine si mescolarono e tutto l’oceano si coprì di schiuma insieme a enormi brandelli che si alzavano fin sotto la stazione. Si levarono da tutti i lati, improvvisamente, verso il cielo color ruggine, come lembi gonfi che non avevano alcuna somiglianza con le nuvole. Quelli che con le loro strisce coprivano il basso disco solare parevano per contrasto neri come il carbone; gli altri, secondo l’angolo con cui venivano colpiti dai raggi dell’est, arrugginivano, si accendevano di colore amaranto; col proseguire di questo processo sembrò che l’oceano si squamasse in strati sanguigni, che mostravano da sotto la loro superficie nera per ricoprirsi di un nuovo strato di schiuma cristallizzata. Qualcuna di queste formazioni planava vicino alle nostre finestre, passando appena a qualche metro di distanza, anzi una volta sfiorando il vetro con la superficie simile a seta, e mentre nuove creazioni si alzavano nello spazio, gli sciami precedenti, alti nel cielo, si dissolvevano come uccelli allo zenit e sparivano in un cielo trasparente. La stazione si fermò, immobile; rimase così per circa tre ore, e lo spettacolo non terminava. Il sole calò dietro l’orizzonte, l’oceano sotto di noi si coprì di tenebre, e ancora miriadi di forme slanciate e arrossate salivano a stormi, sempre più in alto, scorrendo in file interminabili, come sollevate da corde invisibili, impalpabili, imponderabili; e questo ingresso maestoso nel cielo di creazioni dalle ali lacerate durò finché non furono inghiottite dalle tenebre. Lo spettacolo, tranquillo ma immane, impaurì Harey, ma non ero in grado di dirle niente, poiché era nuovo e incomprensibile per me, solarista, quanto per lei. Ma forme e creazioni che non figurano in nessun catalogo si possono osservare, su Solaris, più o meno due o tre volte all’anno e, con un pizzico di fortuna, anche qualche volta di più. La notte seguente, circa un’ora dopo il tramonto del sole azzurro, inaspettatamente fummo testimoni di un altro fenomeno: l’oceano divenne fosforescente. All’improvviso sulla sua superficie apparvero delle macchie singole di luce bianca, che si muovevano col ritmo delle onde. Rapidamente esse si allargarono, si fusero fino a estendersi su tutto l’orizzonte. L’intensità della luce aumentò per quindici minuti, poi il fenomeno finì in modo sorprendente: l’oceano cominciò a spegnersi, da ovest si avvicinò una zona di buio su un fronte di un centinaio di chilometri, che raggiunse la stazione e la oltrepassò, mentre il chiarore fosforescente dell’oceano fuggiva dinanzi a quello spegnitoio gigantesco, verso est. Raggiunto l’orizzonte, divenne come una immensa aurora boreale e sparì improvvisamente. Quando si levò il sole, una superficie vuota e morta, appena segnata dalle onde, mandò riflessi di argento verso le finestre della stazione di Solaris. La fosforescenza dell’oceano era un fenomeno già catalogato: certe volte si manifestava poco prima dello scoppio degli asimmetriadi; a parte ciò, era un tipico sintomo di aumento d’attività del plasma. Comunque, nelle due settimane seguenti non successe niente, né fuori né all’interno della stazione. Solo una volta, in piena notte, udii come un urlo lontano proveniente da ogni parte e da nessuna, straordinariamente alto, acuto e prolungato, simile a un vagito sovrumano; destandomi da un incubo, giacqui a lungo tendendo l’orecchio: era un sogno…? Il giorno prima, dal laboratorio, che stava in parte sopra la nostra cabina, erano giunti dei rumori come se venissero spostati dei grossi pesi o degli apparecchi; mi sembrava che anche questo grido venisse da sopra, cosa in realtà impossibile, poiché gli ambienti erano divisi da soffitti insonorizzati. Questa voce di agonia continuò quasi per mezz’ora. Bagnato dal sudore, semimpazzito, volevo correre su, tanto mi scuoteva i nervi. Improvvisamente tacque. Continuai a udire solo il rumore degli spostamenti di pesi. Due giorni dopo, di sera, ero seduto con Harey nella piccola cucina, quando tutt’a un tratto entrò Snaut. Indossava un vestito, un vero vestito terrestre da città, che lo faceva apparire diverso. Sembrava più alto e più vecchio. Quasi senza rivolgerci uno sguardo si avvicinò al tavolo, si chinò su di esso e senza sedersi cominciò a mangiare della carne fredda direttamente dalla scatola, col pane. Intingeva il polso della manica nella scatola, macchiandosi di grasso. — Ti ungi — dissi. — Uhm — mugolò a bocca piena. Mangiava come se non avesse messo niente nello stomaco da giorni, si versò mezzo bicchiere di vino, lo bevve d’un sorso, si pulì le labbra e, prendendo fiato, girò intorno gli occhi arrossati. Mi guardò e borbottò: — Ti sei lasciato crescere la barba…? Be’, be’… Harey ammucchiava le stoviglie nel lavandino con fracasso. Snaut cominciò a dondolarsi sui tacchi, a fare smorfie succhiando con rumore per pulirsi i denti. Ebbi quasi l’impressione che lo facesse apposta. — Non hai voglia di raderti, vero? — domandò, guardandomi insistentemente. Non risposi. — Stai attento! — aggiunse dopo un momento. — Ti avverto. Anche lui aveva incominciato a non radersi. — Va’ a dormire — borbottai. — Cosa? Perché non possiamo chiacchierare un po’? Ascolta, Kelvin, non può darsi che ci auguri solo del bene? Che voglia farci contenti, però non sa come? Forse indovina i nostri desideri dal nostro cervello, e solo il due per cento dei processi nervosi sono coscienti. Forse ci conosce meglio di noi stessi. Bisognerebbe intendersi con lui. Mettersi d’accordo. Che ne pensi? Non vuoi? Perché… — la sua voce fu rotta da una specie di singhiozzo — perché non ti radi? — Piantala! — brontolai. — Sei ubriaco. — Cosa? Ubriaco? Io? Ebbene? L’uomo che ha portato il peso del suo sterco da una parte all’altra della galassia per sapere quanto vale non può ubriacarsi? Perché? Tu credi nella missione umana, eh, Kelvin? Gibarian mi ha parlato di te, quando non si lasciava ancora crescere la barba… Sei proprio come ti aveva descritto… Non andare nel laboratorio, perderesti la fede… Lì è all’opera Sartorius, il nostro dottor Faust à rebours: cerca un rimedio contro l’immortalità, sai? E’ l’ultimo cavaliere del Santo Contatto, tutto quel che, nel genere, possiamo avere… la sua ultima invenzione non era mica male… prolungamento dell’agonia. Buona questa, eh? «Agonia perpetua»… Un filo di paglia… un cappelluccio di paglia… Come puoi non bere, Kelvin? — I suoi occhi quasi non si vedevano sotto le palpebre gonfie. Guardò Harey, che stava immobile contro la parete. — «Oh, Afrodite bianca, nata dall’oceano, toccata da Dio, la tua mano…» — cominciò a declamare, e scoppiò a ridere. — Quasi perfetto… eh Kel… vin…? — borbottò tossendo. Conservai la calma, ma questa tranquillità cominciava a trasformarsi in fredda ira. — Finiscila! — urlai. — Finiscila e vattene! — Mi sbatti fuori? Anche tu? Ti lasci crescere la barba e mi sbatti fuori? Non vuoi che ti avverta e ti consigli, come un vero compagno stellare? Kelvin, apriamo i portellini sul fondo, mettiamoci a chiamare, a chiamarlo, là sotto, forse ci udrà! Ma che nome ha? Ci pensi, che abbiamo dato un nome a stelle e pianeti che forse ne avevano già uno per conto loro? Che usurpazione! Senti, andiamo giù. Ci metteremo a urlare e… gli diremo che tiro ci ha giocato, fino a che sia sconvolto… allora ci costruirà un simmetriade argentato e pregherà per noi con la sua matematica e ci inonderà dei suoi angeli insanguinati, e il suo dolore sarà il nostro, la sua paura diventerà anche la nostra e ci supplicherà di aiutarlo a finirla. Perché non ridi? Sto solo scherzando. Forse, se come razza avessimo un senso dell’umorismo più spiccato, non saremmo a questo punto. Lo sai che cosa vuole fare, lui? Vuole punirlo, questo oceano, vuole costringerlo a urlare con tutte le sue montagne insieme… Pensi che non avrà il coraggio di presentare un simile piano all’approvazione di quello sclerotico areopago che ci ha mandati qua per la redenzione delle altrui colpe? Hai ragione, avrà paura… ma solo per il cappelluccio. Il cappelluccio non sarà rivelato a nessuno, non è coraggioso, a questo punto, il nostro Faust… Tacevo. Snaut continuava a barcollare sulle gambe. Le lacrime scendevano dalla sua faccia bagnando il vestito. — Chi ha fatto questo? Chi di noi ha fatto questo? Gibarian? Giese? Einstein? Platone? Tutti delinquenti, sai! Pensa che in un razzo l’uomo può scoppiare come un pallone o restare pietrificato, o andare arrosto, e poi rimangono solo gli ossicini, a ballonzolare fra le pareti di latta, sulle orbite del progresso! Noi abbiamo seguito, con gioia, questa stupenda via… e siamo arrivati, e in queste celle, sopra questi piatti, tra immortali lavandini, con una schiera di armadi fedeli, di gabinetti affezionati, qua c’è la nostra realizzazione… Guarda, Kelvin. Se non fossi ubriaco non avrei parlato in questo modo, ma qualcuno, alla fine, deve parlare. Qualcuno, alla fine, deve parlare! Te ne stai seduto, come un bambino in un mattatoio, e ti cresce il pelo… Di chi è la colpa? Risponditi da solo… Lentamente si girò e uscì, sulla soglia si aggrappò allo stipite per non cadere. Si udiva ancora l’eco dei suoi passi che risuonavano nel corridoio. Evitai di guardare Harey, però i nostri occhi si incrociarono. Avrei voluto avvicinarmi a lei, accarezzarle i capelli, ma non potevo. Non potevo. 13. IL SUCCESSO Le tre settimane seguenti furono come un solo e identico giorno, che si ripeteva sempre, le saracinesche si chiudevano e aprivano, di notte continuavo a essere tormentato dagli incubi, alla mattina ci svegliavamo, ci alzavamo e la commedia ricominciava. Era una commedia? Fingevo di essere tranquillo, e Harey anche; questa intesa muta, la consapevolezza del reciproco inganno, ci forniva l’ultima scappatoia. Parlavamo spesso di come avremmo vissuto sulla Terra, in qualche grande città, e non avremmo più abbandonato il cielo azzurro e gli alberi verdi, e inventavamo l’arredamento degli interni e il giardino, e litigavamo sui particolari… sulla siepe, o le panchine… Ho mai creduto, per un solo istante, a quel che dicevo? No. Sapevo che era impossibile. Lo sapevo. Anche se lei avesse potuto abbandonare la stazione e sopravvivere, sulla Terra poteva atterrare solo un essere umano, provvisto di documenti. Il primo controllo avrebbe posto termine alla fuga. Avrebbero cercato di identificarla, ci avrebbero separati. La stazione era l’unico luogo dove potessimo vivere insieme. E Harey, lo sapeva? Sicuramente. Gliel’aveva detto qualcuno? Certamente sì, alla luce di ciò che ancora doveva accadere. Una notte udii, nel sonno, che Harey si alzava silenziosamente. Volevo abbracciarla. Solo nel silenzio, nel buio, potevamo per un attimo liberarci dalla disperazione, dimenticare noi stessi, nella tortura che ci braccava da ogni lato. Non si accorse che mi ero svegliato. Prima che riuscissi ad alzare la mano, scese dal letto. Sentii, sempre nel dormiveglia, il rumore del suo passo scalzo. Mi invase un’oscura paura. — Harey? — sussurrai. Volevo gridare, ma non ci riuscii. Sedetti sul letto. La porta che dava sul corridoio era appena socchiusa. Un filo di luce attraversava la cabina. Mi pareva di udire delle voci. Parlava con qualcuno? Con chi? Saltai giù dal letto, ero terrorizzato, le gambe mi tremavano, rimasi inchiodato, tendendo l’orecchio: silenzio. Lentamente tornai a sdraiarmi. La testa mi scoppiava dalle pulsazioni. Cominciai a contarle. Mi avvicinavo a mille, quando mi interruppi. La porta si aprì senza il minimo rumore. Harey scivolò nel letto, rimase immobile, come se ascoltasse il mio respiro, tentai di farlo sembrare regolare. — Chris…? — sussurrò piano. Non risposi. Alla svelta, si coricò. Sentivo che rimaneva rigida, e io non mi mossi, non so per quanto tempo. Provavo a escogitare una domanda; però, più tempo passava, più mi accorgevo che non avrei parlato per primo. Poi mi addormentai, forse dopo un’ora. La mattina fu uguale alle altre. La guardavo di soppiatto, quando non poteva vedermi. Dopo pranzo eravamo seduti l’uno accanto all’altra, dinanzi alla grande vetrata ricurva, dietro la quale passavano delle nubi color ruggine. La stazione le tagliava come una nave. Mentre Harey leggeva un libro io stavo a osservarla, spesso unico svago possibile. A un tratto mi accorsi che, sporgendomi con la testa in un certo modo, potevo vedere nel vetro il riflesso di noi due, trasparente, però chiaro. Tolsi la mano dal bracciolo. Harey (la vidi nel vetro), dopo essersi assicurata con una rapida occhiata che guardavo verso l’oceano, si chinò sul bracciolo e toccò con le labbra il punto dove si era posata la mia mano poco prima. Rimasi ancora seduto così, irrigidito in modo innaturale, e lei tornò ad abbassare la testa sul libro. — Harey — dissi piano, — dove sei stata questa notte? — Stanotte? — Sì. — Te… lo sei sognato, Chris. Non sono mai uscita. — Non sei uscita? — No, devi essertelo sognato. — Forse — dissi. — E’ possibile che abbia sognato… La sera, quando andammo a letto, ricominciai a parlare del nostro ritorno sulla Terra. — Ah, non voglio sentire — disse. — Non parlarmene, Chris. Sai… — Che cosa? — No. Niente. Mentre eravamo sdraiati, disse di avere sete. — Là, sul tavolo, c’è un bicchiere di succo di frutta, prendimelo, ti prego. — Ne bevve una metà e me lo passò. Non avevo voglia di bere. — Alla mia salute. — Sorrise. Sorseggiai il succo di frutta, che mi sembrò un po’ salato, ma non ci feci molto caso. — Se non vuoi che parli della Terra, di che cosa vuoi che parli? — domandai quando spense la luce. — Se io non ci fossi, ti sposeresti? — No. — Mai? — Mai. — Perché? — Non lo so. Sono stato da solo per dieci anni e non mi sono sposato. Be’, non parliamo di questo, amore… La testa mi ronzava come se avessi scolato una bottiglia di vino. — Parliamo, sì, parliamo. E se io te lo chiedessi? — Che io mi sposi? E’ assurdo, Harey. Non ho bisogno di nessuno, tranne te. Si chinò su di me. Sentivo il suo respiro, mi abbracciò così forte che per un attimo il sonno che avevo mi passò completamente. — Dimmelo in un altro modo. — Ti amo. Si abbatté con la sua testa sulla mia spalla, sentii le sue ciglia che fremevano, le sue lacrime. — Harey, cos’hai? — Niente… niente… niente — ripeté piano. Cercavo di tenere gli occhi aperti perché mi si chiudevano da soli. Non so quando, mi addormentai. Mi svegliò l’alba rossa. Mi sembrava di avere la testa di piombo, e la nuca era irrigidita, come se tutte le vertebre fossero saldate in un unico osso. Avevo la lingua impastata, non riuscivo a muoverla nella bocca. «Devo essermi intossicato con qualche cosa» pensai alzando con sforzo la testa. Con una mano cercavo Harey. Trovai solo il lenzuolo freddo. Mi alzai di colpo. Il letto era vuoto. Nella cabina, nessuno. La vetrata curva rifletteva una fila di soli rosa. Saltai a terra. Dovevo sembrare comico, poiché ciondolavo come un ubriaco. Mi aggrappai agli oggetti; mi precipitai all’armadio scorrevole: il bagno era vuoto. Il corridoio anche. E nel laboratorio non c’era nessuno. — Harey! — urlai in mezzo al corridoio, muovendo disperatamente le braccia. — Harey! — gracchiai ancora una volta; avevo già capito. Non ricordo più che cosa sia successo in seguito. Devo avere corso seminudo per tutta la stazione, ricordo che entrai nella cella frigorifera, e fin nell’ultimo magazzino, picchiando con i pugni contro le porte sbarrate. Forse c’ero stato già una volta. Le scale rimbombavano, cadevo e di nuovo, alzandomi, correvo, finché trovai un ostacolo trasparente, dietro il quale c’era l’uscita esterna: erano le doppie porte blindate. Urlavo, c’era qualcuno vicino a me che cercava di fermarmi. Mi trovai poi nel piccolo laboratorio con la camicia bagnata di acqua gelata, con i capelli appiccicati, il naso, la lingua mi bruciavano per l’alcol, ero sdraiato sul lettino metallico; Snaut era nella sua solita tenuta, calzoni macchiati, eccetera eccetera, cercava qualcosa, forse qualche medicina, rovesciava tutto, provocando un gran baccano. Mi guardò negli occhi fisso, attento… — Dov’è? — Non c’è. — Ma Harey… — Non c’è più Harey — disse lentamente, avvicinando la sua faccia alla mia, come se mi avesse dato un colpo e ne osservasse le conseguenze. — Tornerà — sussurrai, chiudendo gli occhi. E per la prima volta non ne ebbi davvero timore. Non avevo più paura della sua fantastica apparizione. Non capivo come avessi potuto temerla! — Bevi questo. Mi diede un bicchiere con un liquido caldo. Lo guardai e improvvisamente gli buttai il contenuto in faccia. Indietreggiò asciugandosi gli occhi. Quando li aprì, gli ero davanti. Era così piccolo. — Sei stato tu! — Di che parli? — Non dire bugie, lo sai, di che. Tu hai parlato con lei l’altra sera! E le hai consigliato di darmi il sonnifero…! Che hai fatto di lei? Parla! Cercava qualcosa sul petto. Estrasse una piccola busta. Gliela strappai di mano. Era chiusa. Non aveva indirizzo. L’aprii. Dall’interno cadde un foglio piegato in quattro. Una grafia grande, un po’ infantile, non bene allineata. La riconobbi. «Caro, sono stata io a chiederlo. Lui è buono. Ho dovuto mentire, è brutto, ma non sarei riuscita in altro modo. Puoi fare una cosa per me? Ascoltalo, e non farti del male. Sei stato fantastico.» Sotto aveva scarabocchiato tra virgolette «Harey», e dopo averlo scritto lo aveva cancellato; c’era un’altra lettera, come H o K, diventata una macchia. Lessi la lettera una, e ancora un’altra volta. E ancora. Ero troppo lucido per abbandonarmi all’isterismo, non potevo lamentarmi; non trovavo nemmeno la voce. — Come? — sussurrai. — Come? — Dopo, Kelvin. Sta’ calmo. — Sto calmo. Parla. Come? — L’annichilitore. — Come? Quell’apparecchio? — sussultai. — L’apparecchio di Roche non serviva. Sartorius ne ha costruito un altro; un destabilizzatore speciale. Piccolo. Che funziona solo a una distanza di pochi metri. — Che cosa le è accaduto? — E’ sparita. Un balenio e un soffio. Un soffio leggero. Niente di più. — A piccola distanza, hai detto! — Sì. Per un apparecchio grande non c’era materiale sufficiente. Improvvisamente le pareti cominciarono a spostarsi. Chiusi gli occhi. — Mio Dio… lei… tornerà, tornerà… — No. — Come no? — No, Kelvin. Ti ricordi quelle schiume volanti? Da allora, non tornano più. — Ah, no? — No. — L’hai uccisa — dissi piano. — Sì. Tu non lo avresti fatto? Al mio posto? Mi alzai e cominciai a camminare, ogni volta più in fretta. Dalla parete all’angolo e ritorno. Nove passi. Giro. Nove passi. Mi fermai davanti a lui. — Senti, faremo un rapporto. Chiederemo il collegamento diretto col Consiglio. E’ possibile farlo. Saranno d’accordo. Devono. Il pianeta sarà escluso dalla convenzione dei Quattro. Tutti i mezzi saranno permessi. Importeremo i generatori antimateria. Pensi che ci sia qualcosa che riesca a resistere all’antimateria? No, non c’è! Niente! Niente! — urlavo trionfalmente, accecato dalle lacrime. — Vuoi distruggerlo? — disse. — Perché? — Esci. Lasciami! — Non me ne andrò. — Snaut! Lo guardavo negli occhi. — No — disse con un movimento della testa. — Che cosa vuoi? Che cosa vuoi da me? Retrocesse fino al tavolo: — Bene. Faremo il rapporto. Mi girai e cominciai a camminare. — Siediti. — Lasciami in pace. — Le questioni sono due. La prima è relativa ai fatti. La seconda riguarda i nostri desideri. — Dobbiamo parlarne proprio adesso? — Sì, adesso. — Non voglio. Hai capito? Non me ne importa niente. — Abbiamo mandato l’ultimo comunicato prima della morte di Gibarian. Sarà stato due mesi fa. Dobbiamo definire il preciso andamento delle apparizioni… — Non la pianti? — lo presi per il braccio. — Picchiami pure — disse. — Parlerò ugualmente. Lo lasciai andare. — Fa’ quel che vuoi. — Riguardo a Sartorius, cercherà di nascondere alcuni fatti, ne sono quasi certo. — E tu no? — No. Adesso non più. Non è affare solo nostro. Si tratta… lo sai di che cosa si tratta. Ha dato prova di azione intelligente. Capacità di operare una sintesi organica al più alto livello, cosa che noi non sappiamo fare. Conosce la struttura, la microstruttura, il metabolismo dei nostri corpi… — Be’? — dissi. — Perché non continui? Ha fatto su di noi una serie… una serie di esperimenti. Una vivisezione psicologica. In base alla conoscenza rubata ai nostri cervelli, senza tenere conto delle nostre aspirazioni. — Questi non sono fatti, né conclusioni, Kelvin. Sono delle ipotesi. In un certo senso, ha tenuto conto di ciò che voleva una certa parte nascosta del nostro cervello. Forse ci mandava… dei regali. — Regali? Mio Dio! — mi misi a ridere. — Piantala! — urlò, prendendomi per il braccio. Afferrai la sua mano e la strinsi. La strinsi sempre di più, fino a fare scricchiolare le dita. Mi guardava con gli occhi socchiusi, senza vacillare. Lo lasciai e me ne andai in un angolo. Ritto, con la faccia rivolta alla parete, dissi: — Cercherò di dominarmi. — Lascia perdere. Che cosa chiederemo? — Dimmelo tu. Io ora non posso. Ha detto qualcosa prima che…? — Niente. A parer mio, c’è veramente una probabilità, adesso. — Probabilità? Quale? Per che cosa? Ah… — dissi adagio, guardandolo negli occhi, poiché avevo capito improvvisamente. — Il contatto? Ancora il contatto? Non abbiamo sofferto abbastanza? E tu? Tu stesso, in questa gabbia di matti… contatto? No, no, no. Senza di me. — Perché? — domandò tranquillamente. — Kelvin, anche tu, istintivamente, continui a trattarlo come un essere umano. Lo odi. — E tu no…? — aggiunsi. — No, Kelvin, è cieco… — Cieco? — domandai, incerto di avere capito bene. — Nel nostro senso, naturalmente. Non esistiamo, per lui, come esistiamo fra noi. La superficie della faccia, il corpo che vediamo ci danno la possibilità di riconoscerci. Per lui, siamo come un vetro trasparente. Per questo può introdursi all’interno dei nostri cervelli. — Bene, e allora? Dove vuoi arrivare? Se è riuscito ad animare, a creare un essere che esiste solo nella mia memoria e a imitare in tal modo i suoi occhi, i suoi movimenti, la sua voce… — Continua! Continua a parlare, hai capito? — Parlo… sì. Allora… la sua voce… Ciò vuol dire che può leggere in noi come in un libro aperto. Sai che cosa sto dicendo? — Sì. Che, se volesse, potrebbe comunicare con noi? — Naturalmente. Non è chiaro? — Assolutamente no. Forse si è servito di una formula di produzione che non era espressa in parole. Come uno schema memorizzato in una struttura di albumina. Come la testa di uno spermatozoo, o un uovo. Non ci sono nel cervello parole, sentimenti, ricordi umani, è solo un quadro trascritto nel linguaggio degli acidi nucleici su grosse molecole asincrone. Così lui ha preso ciò che c’era di più chiaro in noi, ciò che era più chiuso, più pieno, più impresso, capisci? Non aveva assolutamente bisogno di sapere che significato avesse per noi. E’ come se noi riuscissimo a creare un simmetriade e poi lo gettassimo nell’oceano, conoscendo l’architettura, la tecnologia e il materiale di costruzione, però senza sapere a che cosa serva e che cosa significhi per lui… — E’ possibile — dissi. — Sì, è possibile. In tal caso lui non ha… può essere che non abbia voluto affatto schiacciarci. Può darsi. E, senza volerlo… Le labbra cominciavano a tremarmi. — Kelvin! — Sì, sì. Bene. Niente. Tu sei buono. Anche lui. Tutti sono buoni. Allora perché? Spiegamelo. Perché? Perché lo hai fatto? Cosa le hai detto? — La verità. — La verità, la verità! Quale? — Lo sai. Vieni da me. Incominceremo a scrivere il rapporto. Vieni. — Aspetta un po’. Che cosa vuoi, di preciso? Non vorrai mica rimanere nella stazione…? — Voglio rimanere. Sì. 14. IL VECCHIO MIMOIDE Sedevo davanti a una grande finestra e guardavo l’oceano. Non avevo niente da fare. Il rapporto era stato steso in cinque giorni, era adesso un fascio di raggi che attraversava il vuoto oltre la costellazione di Orione. Quando avesse raggiunto la nebulosa oscura che si estende su una superficie di dodicimila milioni di milioni di chilometri quadrati, e che assorbe ogni segnale e raggio di luce, si sarebbe imbattuto in una delle prime stazioni ripetitrici. Da qui, da una boa radio a un’altra, sarebbe saltato per milioni di chilometri, continuando lungo la curva dell’arco, e infine, l’ultimo trasmettitore, un blocco metallico pieno di strumenti di precisione, con la testa allungata per l’antenna direzionale, l’avrebbe concentrato e inoltrato nello spazio verso la Terra. Dopo parecchi mesi un uguale fascio di energie emesso dalla Terra, lasciando dietro di sé una scia di deformazioni nel campo gravitazionale della galassia, avrebbe raggiunto il fronte della nube cosmica, sarebbe scivolato rinforzandosi lungo il cordone libero delle boe, e con non minore velocità si sarebbe diretto verso i doppi soli di Solaris. L’oceano, sotto il sole rosso in alto nel cielo, era più nero che mai. La nebbia color ruggine formava tutt’uno col cielo. Era un giorno afoso, come se si preparasse una delle tempeste, rare, ma di una violenza inimmaginabile, che si scatenavano una o due volte all’anno. Secondo certe ipotesi, il clima e le tempeste del pianeta erano controllati dal suo unico abitante. Ancora per qualche mese avrei dovuto guardare da quelle finestre le aurore di oro bianco, o di rosso cupo, che di tanto in tanto si rispecchiavano in qualche eruzione liquida, nel pallone argentato dei simmetriadi. Avrei contemplato la migrazione degli snelli agilanti trasportati dal vento e avrei indugiato a considerare i vecchi mimoidi semisgretolati. Un certo giorno, poi, tutte le spie luminose dei videotelefoni si sarebbero messe a lampeggiare, la segnaletica elettronica, da tempo inattiva, sarebbe stata avviata da impulsi trasmessi dalla distanza di centinaia di milioni di chilometri, annunciando l’avvicinarsi del colosso metallico che, col boato continuo dei gravitatori, sarebbe sceso verso l’oceano. Sarebbe stato l’Ulisse o il Prometheus, o un altro dei giganteschi incrociatori per lunghe distanze. Dal tetto della stazione sarei salito a bordo attraverso il boccaporto e avrei visto delle file di automi bianchi blindati, automi massicci, che non condividono con l’uomo il peccato originale, e sono così innocenti da eseguire fino in fondo il proprio compito, pronti a distruggersi o a distruggere ogni ostacolo che incontrano, obbedendo rigorosamente agli ordini, registrati dai cristalli della loro memoria. Poi la nave, più veloce del suono, si sarebbe alzata senza rumore, lasciando lontano dietro di sé un boato sulla superficie dell’oceano, mentre le facce della gente di bordo si sarebbero illuminate al pensiero del ritorno a casa. Ma io non avevo una casa. La Terra? Pensavo alle sue grandi città popolose e rumorose nelle quali mi sarei smarrito, nelle quali sarei scomparso completamente, allo stesso modo che se mi fossi gettato, come avevo pensato di fare due o tre notti prima, nell’oceano che ondeggiava pesantemente nelle tenebre. Sarei annegato tra la gente. Sarei diventato un compagno solerte e silenzioso, benvoluto da amici e da donne, magari avrei avuto una donna per me. Durante un certo periodo avrei dovuto sforzarmi, per sorridere, per salutare, per alzarmi, per fare le mille piccole cose di cui è intessuta la vita terrestre, finché non mi sarei più accorto dello sforzo. Avrei trovato altri interessi, nuovi lavori. Ma non mi sarei più dato a questi interamente. Non mi sarei dato interamente a nulla e a nessuno, mai più. E forse, di notte, avrei fissato lo sguardo là dove, nel cielo, una nebulosa di tenebre nasconde come una membrana nera lo splendore dei due soli, ricordando tutto, anche quello che stavo pensando adesso, e ricordandolo con un sorriso ironico misto a una stilla di rimpianto per le mie follie e le mie speranze. Non credevo che nel futuro ci sarebbe poi stato qualcosa di migliore del Kelvin che era stato pronto a tutto per un progetto chiamato «Contatto». E nessuno avrebbe avuto il diritto di giudicarlo. Nella cabina entrò Snaut. Girò gli occhi all’intorno, poi mi guardò. Mi alzai e mi avvicinai al tavolo. — Volevi qualcosa? — Mi sembra che tu non abbia niente da fare… — disse con una smorfia. — Potrei darti, sai, certi calcoli; non ne ho bisogno subito, però… — Ti ringrazio — sorrisi, — non occorre. — Sei sicuro? — domandò, guardando fuori dalla finestra. — Sì. Pensavo a varie cose, e… — Preferirei che tu pensassi un po’ meno. — Ah, ma non sai a che cosa. Dimmi, tu credi in Dio? Mi osservò attentamente. — Come? Chi crede, oggi… — scorgevo nei suoi occhi l’inquietudine. — Non è così semplice — dissi in tono volutamente leggero. — Non riguarda il Dio tradizionale delle religioni terrestri. Non sono uno specialista di storia delle religioni, e forse non invento niente. Ma sai, per caso, se ci sia stata mai una fede in un Dio… imperfetto? — Imperfetto? — ripeté alzando le sopracciglia. — Come lo intendi? In un certo senso il Dio di ogni religione è imperfetto, poiché carico di attributi umani. Il Dio dell’Antico Testamento esigeva il servilismo, pretendeva il sacrificio di vittime, era geloso degli altri dei… Presso i greci gli dei, con le loro beghe e liti in famiglia, erano quasi altrettanto imperfetti degli uomini. — No — l’interruppi. — A me interessa un Dio nel quale l’imperfezione non derivi dall’ingenuità dei suoi creatori umani, e ne sia invece la principale caratteristica immanente. Dev’essere un Dio, limitato nella sua onniscienza e onnipotenza, che sbaglia nel prevedere il futuro delle proprie opere, e crea un corso di fenomeni che può destare orrore. Questo è un Dio… invalido, che vuole sempre più di quanto può, e che non se ne rende conto subito. Crea gli orologi, ma non il tempo che essi debbono misurare. Sistemi o meccanismi che dovrebbero servire a certi precisi scopi e invece li oltrepassano e li tradiscono. Ha creato l’infinito, che doveva essere la misura della sua potenza, e invece è diventato il metro della sua immane sconfitta. — Un tempo il manicheismo… — incominciò a dire, titubante, Snaut. Il diffidente riserbo con cui si era rivolto a me negli ultimi tempi era sparito. — Niente in comune col principio del bene e del male — lo interruppi. — Questo Dio non esiste fuori della materia e non può liberarsi da questa, e non vuole altro… — Una religione simile non la conosco — disse dopo un istante di silenzio. — Non è mai stata… necessaria. Se ti ho capito bene, come temo, tu pensi a un Dio che si evolve, che si sviluppa nel tempo, che cresce e aumenta di continuo la propria potenza prendendo coscienza della propria impotenza. Questo tuo Dio è un essere inserito nella divinità come in una situazione senza uscita, e che, sapendolo, se ne dispera. Sì. Però il Dio disperato non è forse l’uomo, mio caro? Stai parlandomi dell’uomo… E’ una filosofia che non vale granché e una mistica che vale ancora meno. — No — risposi ostinatamente. — Non parlo dell’uomo. Forse, in qualche particolare, l’uomo corrisponderebbe a questa definizione sommaria, ma solo per il fatto che è piena di lacune. L’uomo, contrariamente alle apparenze, non si crea degli scopi. Glieli impone il periodo nel quale nasce, ed egli può servirli o ribellarvisi, ma l’oggetto del suo servizio o della sua rivolta gli è dato dall’esterno. Per cercare i propri scopi in libertà assoluta l’uomo dovrebbe essere solo, e non può riuscire, poiché l’uomo che non è educato tra la gente non può diventare uomo. Quello… mio non può esistere al plurale, capisci? — Ah — disse, — allora… — E indicò con la mano la finestra. — No — negai. — Lui no. Lui ha certo sfiorato nel suo sviluppo la possibilità di essere Dio, ma si è chiuso in se stesso troppo presto. E’ un anacoreta, un eremita del cosmo, e non il suo Dio… lui si ripete, Snaut, e quello che ho in mente non lo farebbe mai. Forse nasce da qualche parte, in qualche angolo della galassia, e a momenti incomincerà, con l’ebbrezza dell’adolescente, a spegnere certe stelle e ad accenderne altre, e lo noteremo solo fra qualche tempo… — Lo abbiamo già notato — disse Snaut con acidità. — Novae e supernovae… sono secondo te delle candele del suo altare? — Se prendi le mie parole alla lettera… — O forse Solaris è la culla del tuo Dio bambino — aggiunse Snaut. Assieme al suo sorriso si accentuavano le rughe della sua faccia. — Forse, secondo il tuo ragionamento, è lo stadio primitivo, l’embrione del Dio disperato. Forse la vitalità della sua infanzia supera ancora di troppo la sua intelligenza, e tutto ciò che contengono le nostre biblioteche di solaristica costituisce il voluminoso catalogo dei suoi riflessi infantili… — Noi per un periodo di tempo siamo stati i suoi giocattoli — aggiunsi. — Sì, è possibile. E sai in che cosa sei riuscito? Nel creare un’ipotesi nuova di zecca sull’argomento Solaris… E non dico poco! Con essa tutto va a posto e si spiega: l’impossibilità di allacciare il contatto, la mancanza di risposta, e certe… stravaganze nel comportamento con noi; tutto corrisponde a una psicologia accentuatamente infantile… — Rinuncio alla paternità dell’opera — borbottò, rimanendo sempre vicino alla finestra. Per un bel po’ guardammo le onde nere. Si intravedeva una piccola macchia pallida e oblunga nelle nebbie dell’orizzonte, a est. — Come ti è saltata in mente l’idea del Dio imperfetto? — domandò improvvisamente, senza staccare gli occhi dal deserto luccicante. — Non lo so. Mi è sembrata molto verosimile, sai? E’ l’unico Dio al quale sarei capace di credere. La sua sofferenza non è una redenzione, non salva niente, non serve a niente: semplicemente, è. — Un mimoide… — disse piano Snaut, con un altro tono di voce. — Cosa dici? Ah, sì. L’avevo notato. E’ molto vecchio. Entrambi guardavamo l’orizzonte rugginoso e annebbiato. — Esco in volo — dissi improvvisamente. — Fino ad ora non mi sono mai allontanato dalla stazione, e questa è una buona occasione. Torno tra mezz’ora… — Che cosa dici? — Snaut spalancò gli occhi. — In volo? Dove? — Là. — Additai la macchia corposa nella nebbia. — Che male c’è? Prenderò il piccolo elicottero. Sarebbe comico, sai, se sulla Terra dovessi un giorno dire di essere un solarista che non ha mai messo piede sul suolo di Solaris… Mi avvicinai all’armadio e incominciai a smuovere le tute. Snaut mi osservò in silenzio e infine disse: — Non mi va a genio. — Cosa? — Mi girai con la tuta in mano. Da tempo non ero così eccitato. — Che c’è? Hai paura che…? E’ assurdo. Ti do la mia parola che no. Non ci avevo nemmeno pensato. No, veramente no. — Vengo con te. — Grazie, ma preferisco andare da solo. E’ qualcosa di nuovo per me, qualcosa di completamente nuovo — dissi, indossando rapidamente la tuta. Snaut brontolò non so che; non lo ascoltavo, cercavo in fretta l’equipaggiamento che mi occorreva. Mi seguì fino all’aeroporto. Mi aiutò a far uscire l’apparecchio dal box e a portarlo in mezzo alla piattaforma di partenza. Mentre stavo per chiudere la tuta, mi domandò: — La parola d’onore ha qualche valore per te? — Mio Dio, Snaut! Ancora? Te l’ho già data. Dove sono le bombole di riserva? Non mi disse più niente. Quando chiusi la cupola trasparente, gli feci cenno con la mano. Mise in moto l’ascensore, che mi portò fuori, sulla parte superiore della stazione. Il motore si svegliò, rumoreggiò, la tripla elica girò e l’apparecchio si alzò, stranamente leggero, lasciando dietro di sé il disco argenteo, sempre più piccolo, della base spaziale. Ero per la prima volta solo sopra l’oceano. L’impressione era diversa da quella che si aveva dalla finestra, forse per la bassa quota dell’apparecchio. Volavo a una distanza di appena qualche decina di metri sopra le onde. Solo ora capivo e sentivo che le increspature e gli avvallamenti della superficie si muovevano non come le onde del mare, o come le nuvole, ma come un animale. Pareva la contrazione continua ma straordinariamente lenta dei muscoli di un corpo che secerneva una schiuma scarlatta. Quando feci per dirigermi verso il mimoide simile a un’isola che andava lentamente alla deriva, il sole mi colpì dritto negli occhi, gettò sprazzi sanguigni sul vetro curvo, e l’oceano nero divenne di un azzurro scuro con delle macchioline di fuoco. La manovra, compiuta con non troppa abilità, mi fece scadere sottovento, lontano dalla sagoma lunga e chiara del mimoide che si sollevava irregolarmente sull’oceano. Aveva perso il color rosa di cui si rivestiva nella nebbia, era giallastro come un osso essiccato; per un momento lo persi di vista e invece scorsi in lontananza la stazione, simile per forma a uno degli antichi dirigibili, che pareva posato sulla superficie oceanica. Ripetei la manovra con maggiore attenzione; la massa del mimoide, col suo rilievo tormentato e grottesco, crebbe rapidamente avvicinandosi. Per timore di urtare le protuberanze a bulbo raddrizzai l’apparecchio così bruscamente che, perdendo velocità, si mise a rollare; la precauzione era stata inutile, perché le cime arrotondate di quelle torri si abbassavano. Regolai il volo sulla deriva dell’isola e lentamente, un metro per volta, scesi fino a sfiorare le vette corrose. Non era enorme. Da un capo all’altro misurava poco più di un chilometro, su una larghezza di un paio di centinaia di metri. In certi punti mostrava un restringimento che annunciava che presto si sarebbe spaccato. Doveva essere un pezzo staccato di una formazione incomparabilmente più grande. Sulla scala di Solaris era appena una scheggia, un residuo già vecchio di chissà quante settimane o mesi. Tra gli scogli a strapiombo sull’oceano c’era un’apertura, una specie di spiaggia di qualche decina di metri quadrati, in pendio ma piatta. Diressi lì il velivolo. La discesa fu più difficile del previsto, andai a un pelo dal toccare con l’elica un dirupo che mi ero trovato improvvisamente dinanzi. Spensi il motore e aprii la cupola respingendola all’indietro. In piedi sull’alettone verificai che l’elicottero non rischiasse di scivolare verso il basso, nell’oceano; le onde lambivano la riva a pochi passi dal punto di discesa, ma l’apparecchio stava al sicuro sui suoi appoggi largamente divaricati. Saltai a… «terra». Quello che mi era parso un dirupo era una grandissima membrana sottile e traforata, una lastra pietrificata posata verticalmente e percorsa da rigonfiamenti. Una breccia larga alcuni metri fendeva di sbieco la parete e consentiva di esaminare l’interno dell’isola, già intravista attraverso le sue immense e irregolari aperture. Mi arrampicai con prudenza sulla sporgenza più vicina, ed ebbi la prova che le scarpe facevano presa, che la tuta non impacciava i miei movimenti. Ora, trovandomi a un’altezza di quattro piani sopra l’oceano, in mezzo al paesaggio scheletrico, finalmente potevo vederlo per intero. Assomigliava in modo sorprendente a un’arcaica città in rovina, una borgata esotica e secolare del Marocco, distrutta da un terremoto o da un altro cataclisma. Si vedeva chiaramente il labirinto di stradine tortuose, in parte coperte dalle macerie, con i vicoli in ripido pendio verso la riva, bagnati dalla massa gelatinosa; più in alto merlature intatte e bastioni dai contrafforti smussati, nelle pareti rigonfie le aperture buie erano come finestre e feritoie di una fortezza. Quest’isolacittà era tutta inclinata su un fianco, come una nave che affonda, e andava alla deriva, con un movimento senza senso né costanza, girando molto lentamente su se stessa, com’era confermato dal cambiamento di posizione del sole sull’orizzonte, che provocava anche lo spostarsi delle ombre tra i ruderi della città in rovina; di tanto in tanto una superficie levigata gettava il bagliore di un raggio di sole fin dove mi trovavo. Mi arrampicai più in alto, non senza rischio, finché dalle forme sospese sopra la mia testa cominciarono a cadere dei calcinacci; cadendo sollevavano parecchia polvere, tra le stradine e i burroni. Il mimoide non è roccia naturale, e la rassomiglianza sparisce quando se ne prende un pezzetto in mano: è una materia molto più leggera e porosa della pomice. Da quell’altezza percepivo i suoi movimenti: non soltanto avanzava, spinto dalle contrazioni muscolari dell’oceano, ma anche s’inclinava, una volta su un lato, una volta sull’altro, sempre lentamente, un languido dondolio accompagnato dal fruscio della schiuma scura e gialla che scorreva e si riversava lungo il bordo emerso. Questa oscillazione durava in virtù della sua immensa massa: osservai dal mio luogo tutto ciò che potevo, e prudentemente scesi in basso. Allora — cosa strana — mi resi conto che il mimoide non m’interessava affatto, che non ero andato fin là per osservarlo, ma per guardare l’oceano. Sedetti sulla superficie ruvida e screpolata; dietro di me, a una decina di passi, l’elicottero. Un’onda nera venne a coprire pesantemente la riva, spianandosi e nel contempo scolorando; quando si ritirò, dei fili di mucosa scivolarono via sul bordo della massa. Scesi ancora più in basso e tesi la mano verso la successiva. Si ripeté fedelmente il fenomeno sperimentato dalla gente un secolo prima: l’onda esitò, retrocesse, sommerse la mia mano, senza comunque toccarla, cosicché tra la superficie del guanto e l’interno della cavità, che di colpo cambiò consistenza diventando da liquida quasi solida, rimase come un filo d’aria. Alzai allora lentamente il braccio; l’onda, o meglio la sua esigua propaggine, lo seguì, continuando a coprire la mia mano come un sacco sempre più trasparente, verdastro. Dovetti alzarmi per poter sollevare il braccio più in su; la sostanza gelatinosa si allungò come un cordone teso, ma non si spezzò; la base dell’onda completamente appiattita sulla riva mi avvolgeva i piedi (senza nemmeno toccarli), come un essere in paziente attesa della fine dell’esperimento. Sembrava che dall’oceano fosse nato un fiore, il cui calice mi circondava le dita, diventandone l’esatto negativo. Retrocessi. Il gambo vibrò, vacillò e, come controvoglia, ricadde; l’onda lo riassorbì e sparì dietro il bordo della riva. Ripetei questo gioco finché non accadde, come cento anni prima, che un’onda arrivò e se ne andò indifferente, come sazia di questa nuova impressione, e sapevo che per ridestare la sua «curiosità» avrei dovuto aspettare ore. Sedetti di nuovo; ma, in un certo senso, mutato dal fenomeno che avevo provocato e che già conoscevo, per quanto solo in teoria; la teoria non può mai rendere la reale impressione della cosa reale. Nello sbocciare, evolversi, allargarsi di questa creatura viva, in ogni singolo atto e nei suoi movimenti complessi si manifestava, come avevo sperimentato, una ingenuità cauta ma non selvatica, quando si abbandonava a cercare rapidamente di conoscere, di capire la forma nuova e inattesa; e quando con rincrescimento doveva ritirarsi, non oltrepassava i limiti imposti da una legge misteriosa. Quale contrasto inesprimibile fra quella curiosità agile e quella massa che raggiungeva tutti i punti dell’orizzonte! Non ne avevo mai sentito così acutamente la presenza immane che, nel suo silenzio potente e assoluto, respirava regolarmente con le onde. Con lo sguardo fisso, immobile, affondavo in un cerchio apparentemente inaccessibile e, nella crescente intensità dell’abbandono di me stesso, m’identificavo con il cieco colosso liquido come se, senza il minimo sforzo, senza parole, senza un pensiero avessi perdonato tutto. Durante quell’ultima settimana mi ero comportato così assennatamente che il barlume di diffidenza nello sguardo di Snaut era sparito. Esternamente mi mantenevo calmo, nell’intimo non riuscivo a rendermi conto chiaramente se stessi aspettando qualcosa. Che cosa? Il suo ritorno? Come potevo? Ciascuno di noi sa che ogni essere materiale è sottomesso a precise leggi fisiologiche e fisiche, e che nemmeno la forza di tutti i nostri sentimenti può lottare contro queste leggi; possiamo solo odiarle. La secolare fede degli amanti e dei poeti nella potenza dell’amore più duraturo della morte, la frase che ci perseguita da secoli, finis vitae sed non amoris, è una bugia. Una bugia inutile, e nemmeno divertente. Dobbiamo dunque rassegnarci a essere un orologio che misura il tempo, alternativamente sgangherato e riparato, il cui meccanismo, appena il costruttore ne mette in moto gli ingranaggi, genera insieme l’amore e la disperazione, e anche a sapere di ripetere solo sofferenze antiche, più profondamente comiche quanto più spesso vengono ripetute? Ripetere l’esistenza umana va bene, ma dobbiamo farlo come un ubriaco ripete una canzone conosciuta mettendo le monete nel jukebox? Non avevo immaginato neppure per un istante che questo colosso liquido, che aveva causato la morte di centinaia di persone, col quale da decine d’anni la mia specie cercava di stabilire rapporti d’intesa, e che mi sorreggeva e mi portava con sé come fossi un granello di cenere, si sarebbe commosso per la tragedia di due persone. Ma la sua azione si indirizzava verso uno scopo. A dire il vero, non ero sicuro di questo. Andarmene, comunque, significava cancellare quella possibilità, forse minuscola, forse immaginaria, che si nascondeva nel futuro. Avrei dovuto allora passare su Solaris degli anni, tra mobili e oggetti che avevamo toccato insieme, nell’aria che ricordava ancora il suo respiro? In nome di che cosa? Nella speranza di un suo ritorno? Non avevo speranze. Però viveva in me l’attesa, l’ultima cosa che mi fosse rimasta. Che appagamenti, che beffe, che torture potevo ancora aspettarmi? Chissà, ma persistevo nella fede irremovibile che l’epoca dei miracoli crudeli non fosse ancora finita.